Trent’anni dal metanolo, lo scandalo che ci rese grandi
Lo scandalo fu terribile ma da lì partì la lunga strada del cibo italiano verso la qualità, guidata da Slow Food
Il bilancio umano dello scandalo del vino al metanolo, che scoppiò nel marzo di trent‘anni fa, fu pesantissimo. Quello economico non fu da meno. Le esportazioni di vino furono bloccate in tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Germania il nome dell’Italia fu accostato all’adulterazione e al pericolo di morte. Le vendite crollarono e decine di aziende fallirono.
Era il 18 marzo 1986 quando i primi tre casi di morti per intossicazione da metanolo furono segnalati da un lancio dell’Ansa. Tre etilisti, si disse. L’epicentro dello scandalo fu individuato a Cuneo, dove la ditta Ciravegna produceva vino che veniva imbottigliato da un’azienda di Asti. Ma non era che l’inizio. Nel giro di poche settimane le aziende coinvolte, una sessantina in tutto, spuntarono da tutte le parti, e in particolare nel Centro-Nord. Il Piemonte, dalle Langhe al Monferrato. L’Emilia Romagna, il Trentino Alto Adige, la Lombardia, la Toscana, la Liguria, il Veneto e il Friuli Venezia Giulia seguirono. Al Sud fu coinvolta solo Taranto.
Il paradosso è che a rendere convenienti questi scandali era stato un decreto legge, varato in attuazione di alcune sentenze della Corte di giustizia europea. In sostanza, si detassava il metanolo, che diveniva così dieci volte meno caro dell’alcol etilico. Il metanolo non è altro che un alcol ottenuto per distillazione a secco del legno o per via industriale. A intervenire sul vino ci si metteva un attimo. Furono i morti, che arrivarono quando le percentuali superarono di 25 e fino a 100 volte i limiti di legge, a dare una sveglia tutti.
Come ricostruisce uno studio della Fondazione Symbola e di Coldiretti, la risposta che all’epoca diedero le istituzioni fu radicale e cambiò non solo il mondo del vino ma tutto il settore agroalimentare. La prima misura fu repressiva e vietò la vendita dei prodotti delle ditte inquisite. Ci fu però anche tutta una parte costruttiva: prima un’anagrafe vitivinicola regionale. Poi arrivò l’aumento degli organici dei Nas e degli uffici periferici delle dogane. Fu creato l’ispettorato centrale repressione frodi, con uffici interregionali, regionali e interprovinciali. Si stanziariono 10 miliardi di lire per una campagna straordinaria di educazione alimentare e 5 miliardi per una campagna più specifica sul vino. Intanto le vendite crollavano: il 1986 si chiuse con una contrazione del 37% degli ettolitri e la perdita di un quarto del valore incassato l'anno prima. Ci furono allora misure di sostegno ai prezzi e provvedimenti straordinari per la distillazione e lo stoccaggio. Infine, alla fine del 1986, fu creata un’agenzia per provenire le frodi nei settori che beneficiavano di fondi comunitari (a vedere gli ultimi dati delle frodi di questo tipo, ci sarebbe da rimettere mano alla materia).
Cominciò quindi a cambiare la mentalità e un contributo decisivo lo diedero, e continuano a darlo, associazioni come Slow Food, che nacque proprio in Piemonte, la regione più colpita dallo scandalo e oggi sinonimo di prodotti di alta qualità. «Oggi la situazione è del tutto diversa - spiegano Symbola e Coldiretti - e il vino italiano è un’eccellenza mondiale. Tuttavia, per il vino come per gli altri settori del Made in Italy, vale la regola che anche le posizioni di maggiore vantaggio vanno salvaguardate», con politiche di marketing, azioni di tutela dei vitigni autoctoni e investimenti in ricerca.
Non tutto filò liscio.