Francesco Morace: «La ricetta per la crescita felice? Coraggio culturale e contaminazione»
Intervista al sociologo, che lancia una nuova edizione itinerante del Festival della Crescita: «L’Italia paga un contraccolpo di immaginario»
La sfida è ambiziosa, qualcuno la definirebbe folle: celebrare un festival dedicato alla crescita in un paese che non cresce da almeno vent’anni. Per il sociologo Francesco Morace, autore di fortunati saggi come Crescita Felice e Italian Factor, al contrario, è una sfida necessaria. Perché sebbene la crescita «sia un’impresa, come quelle dei cavalieri della tavola rotonda», è vero anche «che l'Italia dà il meglio di se nelle emergenze, quando il suo destino è appeso a un filo, come oggi». Così, dopo un evento tutto milanese nel 2015, per il 2016 il Festival della Crescita diventa un percorso itinerante che, partendo da Milano il 3 marzo e chiudendo sempre nel capoluogo lombardo dal 13 al 16 ottobre, toccherà dieci città italiane, da Roma a Venezia, da Torino a Bari, da Brescia a Siracusa.
Morace, partiamo dalla realtà, però. Perché, secondo lei, l’Italia non cresce più?
Ci sono due spiegazioni, a mio avviso. La prima è più macro, legata ai grandi cicli. Nella storia economica dei paesi ci sono passaggi in cui i paesi hanno tassi di crescita bassa dopo un periodo di grande boom. La nostra economia è diventata matura. È fisiologico, insomma, che dopo un po' si smetta di crescere.
Ok, però noi cresciamo meno di chiunque, in Europa...
Questo è il secondo motivo: negli ultimi vent'anni, abbiamo avuto un contraccolpo di immaginario.
In che senso?
Si ricorda Armani sulla copertina di Time, nel 1982? Ecco, negli anni ottanta si è gonfiata una bolla di aspettative che non siamo stati in grado di realizzare. E quando è scoppiata, nei primi anni ’90, non siamo stati in grado di gestire la caduta. Non c'entrano né Prodi, né Berlusconi. Semplicemente, il paese ha deciso di passare la nottata. Senza prospettive, senza visione strategica.
E come si ricostruisce, una prospettiva?
Provando a lavorare sui difetti del nostro paese.
Quali?
La carenza di coraggio culturale, che è necessario per fare qualcosa di nuovo, per fare un salto in avanti. O il provincialismo che porta a pensare che l'università non possa dialogare con l'impresa, l'impresa con la pubblica amministrazione e che quest’ultima sia solo un veicolo per consolidare il potere.