marketing

Il lungo viaggio verso il budget perfetto

l'opinione di

Gianluca Diegoli

L’omnicanalità è nei fatti, ognuno di noi in quanto consumatore lo percepisce nei propri acquisti, ma si ha spesso l’impressione, per chi è un minimo all’interno delle dinamiche dell’industria di brand (i produttori di prodotti a marchio del largo consumo) che gli sforzi e i budget di marketing non abbiano seguito di pari passo l’evoluzione dell’ambiente circostante.

Frammentazione nei canali di distribuzione e nei messaggi di marketing

Non parlo solo della progressiva digitalizzazione social della comunicazione, o della lenta ma ineluttabile crescita delle vendite digitali, o anche dell’avanzata (ai primi passi in Italia) del retail media, ma soprattutto della frammentazione del canale distributivo (dei canali, in realtà) che più che una sostituzione dei vecchi modelli ha visto un progressivo affiancamento di nuove forme di retail, ibride e digitali. Questa frammentazione è amplificata dal fatto che oggi ogni forma di vendita è anche una forma di advertising (che differenza c’è tra una scheda prodotto di un sito e-commerce e un banner?) e dalla classica situazione di intermediazione che l’e-commerce D2C (direct-to-consumer) digitale dei singoli brand non sembra, nella maggior parte dei casi, in grado di intaccare.

Qualsiasi brand dell’Industria oggi non solo distribuisce i propri prodotti attraverso una pletora di altri soggetti (GDO, catene specializzate, store online specialisti, aggregatori online, marketplace, vendita diretta dal proprio sito, a volte piccoli e medi negozi monomarca e plurimarca), ma anche il messaggio di marketing è oggi frammentato in una miriade di mezzi: ci sono i profili social e digitali del canale GDO, l’informazione in-store, il proprio piano editoriale magari associato a collaborazioni con influencer, ci sono i mezzi di massa come radio e TV,  la cartellonistica e i volantini localizzati.

Allocare il budget

Oggi, per brand consapevoli, gestire questa complessità è oggettivamente disperante, e si finisce spesso per cercare delle scorciatoie decisionali nell’esperienza personale, nei “secondo me”, o in correlazioni azione-risultato che non sempre (quasi mai, potremmo azzardare) supererebbero test statistici accurati. Oppure si cerca un approccio “progressivo-prudente” in cui si parte dall’allocazione degli anni precedenti e leggermente, di anno in anno, si fanno cambiamenti a seconda “dei trend”, delle propensioni o delle scommesse personali del management o delle trattative commerciali. Nota per advertiser e centri media: il reparto commerciale dell’industria di marca in realtà già gestisce buona parte del budget di marketing. Come qualcuno in platea allo scorso Linkontro di maggio 2024 giustamente faceva notare, il 90% del retail media è già oggi budget commerciale, non di marketing.

L’allocazione del budget segue quindi oggi un salomonico criterio per cui la spesa in promozione è proporzionale alle vendite (passate), allocando media per media e canale di vendita per canale in proporzione alle percentuali del sell-in. Se questo criterio per buona parte è supportato da un sano buon senso, potrebbe non rappresentare l’optimum e potrebbe far perdere opportunità sia di crescita che di ottimizzazione della spesa pubblicitaria. L’investimento pubblicitario dovrebbe seguire infatti, per massimizzare gli effetti e/o minimizzare la spesa, il criterio dell’impatto massimo e dell’incrementalità. Senza citare il cliché del famoso detto per cui “metà della mia pubblicità è sprecata, solo non so quale metà”, e senza cadere nell’inganno della “perfetta misurabilità dell’investimento digitale”, ci sono tuttavia passi avanti che la tecnica e la teoria del marketing hanno compiuto che non possono più essere ignorati dalle aziende dell’industria di marca.

Alcuni gap sono abbastanza noti: la necessità di gruppi di controllo è sempre stato il punto chiave (e dolente). Non possiamo misurare l’aumento della notorietà dopo una campagna di massa se non abbiamo un gruppo di controllo per confronto che non è stato esposto, perché, banalmente, la notorietà potrebbe essere aumentata per la semplice esposizione aumentata a scaffale. Questo, su mezzi digitali, è più facile che per la TV (almeno la TV non connessa) e la radio, anche se test geografici sulle vendite possono comunque dare buone indicazioni, e la misurazione delle ricerche online su Google per il nome del brand, post e durante la campagna, può essere un buon indicatore di impatto. Però oggi test su scala più piccola possono essere effettuati sul proprio store diretto, prima di essere applicati a campagne in collaborazione con la Distribuzione, con ben altro impatto economico. Naturalmente la digitalizzazione e la creazione “automatica” di contenuti porta a rendere possibile (oggi) la creazione di varianti di spot e video, basati sullo stesso claim e insight, ma diversi in dettagli più o meno determinanti. Gli A/B test possono portare a ottimizzare la spesa (mentre stiamo spendendo) sui contenuti che hanno – quanto meno – più engagement, cioè reazioni tracciabili, se non indicazioni di acquisto. Anche la progressiva accessibilità di strumenti che appartengono al neuromarketing, come la visualizzazione a campione della ricettività dell’audience rispetto a testi, immagini e claim può essere un altro sistema di ottimizzazione.

Il problema principale rimane però la misurazione del budget in silos, che porta a trattare ogni azione distinta non come un sistema complesso con interrelazioni e influenze, ma come singole azioni con distinti effetti. La misurazione a silos può scatenare il peggiore degli scenari possibili a livello di organizzazione interna, in cui ogni canale diventa concorrente e non collaborativo rispetto agli altri. L’e-commerce diretto, per mano del proprio budget riservato, potrebbe, per esempio, puntare tutto sulla conversione finale, non investendo invece minimamente in brand awareness sui canali online, magari perdendo anche opportunità di risparmio per contatto realizzato. La comunicazione aziendale centrale potrebbe specularmente a sua volta investire tutto nel retail media offline, in quanto è quello che si correla meglio con l’effetto delle vendite sullo scaffale. L’effetto finale è che la spesa per il brand, principale motivo di essere di un prodotto di largo consumo nell’era di Amazon e delle marche del distributore, sarebbe sicuramente sottostimata rispetto ai suoi impatti presenti e soprattutto futuri.

Quali modalità di misurazione – sempre lì si torna, “quello che misuri è quello che otterrai" – possiamo attivare per evitare questi rischi? Di certo esiste oggi molta più facilità di entrare in contatto con il consumatore, anche quello che ha comprato attraverso il canale indiretto. Con sondaggi digitali e dati si può ricostruire la mappa, e quali sono stati gli snodi chiave del suo percorso di acquisto. È un po’ l’evoluzione naturale della classica domanda “dove ci hai conosciuto?”. Oggi li chiamiamo “zero party data”, ma il concetto rimane quello.

Rimane il problema di come allocare qualcosa che, senza ombra di dubbio, fornisce risultati sistemici (il budget totale di marketing) e che invece si sta misurando come somma dei risultati di singole coppie di iniziativa-causa-effetto (che certo a livello tattico sono da valutare) ma che perdono di rilevanza nella strategia complessiva e nel lungo periodo. I risultati sistemici da misurare si devono riferire infatti agli effetti complessivi delle attività di marketing, e possono includere l'aumento della brand awareness, il miglioramento della percezione del marchio, la fidelizzazione dei clienti e la creazione di una presenza di mercato solida e duratura. Questi risultati emergono dall'interazione sinergica di molteplici azioni di marketing, che insieme creano un impatto maggiore rispetto alla semplice somma delle singole parti.

Misurare: un approccio sistemico

Per affrontare efficacemente il problema di allocare il budget di marketing è necessario adottare un approccio sistemico di misurazione. Alcuni strumenti che in passato erano usati solo da aziende molto grandi e multinazionali stanno diventando più democratici a livello di costi di accesso e di integrazione gestionale e digitale, e le analisi più facili con l’aiuto dell’onnipresente AI. Non sono da considerarsi oracoli infallibili, ma co-piloti che possono suggerire, quantomeno, azioni di ulteriore approfondimento. Ecco un elenco di tecniche, certo non esaustivo, che dovrebbero essere oggetto d’indagine per prime in azienda:

  • Media Mix Modeling (MMM): questo approccio utilizza tecniche statistiche avanzate per analizzare l'effetto complessivo delle varie attività di marketing. Il MMM può aiutare a identificare le combinazioni di canali che producono i migliori risultati sistemici, consentendo un'allocazione più informata del budget. È particolarmente interessante nel mondo dell’Industria perché per buona parte prescinde dal tracciamento puntuale dei singoli consumatori, che è sempre stato il tallone di Achille dell’industria di marca, che non ha contatto diretto con i consumatori, anche senza contare che il tipo di tracciamento one-to-one è ulteriormente messo sotto pressione dalle leggi sulla privacy.
  • Analisi del customer journey: comprendere il percorso del cliente dal primo contatto fino alla conversione è fondamentale. Questa analisi permette di identificare i touchpoint chiave che influenzano il processo decisionale del cliente, fornendo insight su come le diverse iniziative di marketing lavorano insieme per creare risultati sistemici. In questo caso, è un’analisi più qualitativa, da svolgere online e sul campo. Non è mutuamente esclusiva con la metodologia MMM, anzi è altamente complementare, e può essere svolta da consulenti competenti in UX.
  • Test di incrementalità: serve per valutare il contributo aggiuntivo di ciascuna iniziativa di marketing. Questi test possono anche aiutare a distinguere tra l'effetto immediato di una campagna e il suo contributo al sistema di marketing nel suo complesso.
  • Implementazione di KPI olistici: definire indicatori chiave di performance che tengano conto degli effetti sistemici, e non solo degli effetti puntuali. Ad esempio, con tutti le precauzioni del caso, la misurazione del Net Promoter Score (NPS) o della Brand Equity (awareness, preferenza, propensione) può fornire una visione più completa dell'impatto del marketing sul lungo termine.
  • Approccio iterativo e data-driven, almeno ai mezzi digitali: prevede la costante revisione e adattamento delle campagne di marketing basato sui dati raccolti, senza un delay temporale di mesi, tipico del secolo scorso e dei canali offline.

Un esempio ipotetico? Supponiamo che l'azienda XYZ, produttrice di creme spalmabili di nocciola biologica, voglia espandere la propria presenza digitale pur mantenendo una forte presenza nella grande distribuzione. XYZ potrebbe utilizzare un modello MMM per analizzare con regressioni lineari e modelli econometrici come le campagne sui social media e digital, le promozioni in-store e le partecipazioni a fiere influenzano le vendite complessive e la brand awareness nel breve, medio e lungo periodo. Basandosi su questi dati storici, l'azienda potrebbe decidere di investire più risorse nelle attività digitali meno costose (usando una strategia data driven di ricerca della combinazione costo-beneficio migliore) durante i periodi di bassa stagione per mantenere alta la visibilità del marchio, mentre concentrare le promozioni in-store (più efficaci a breve) solo durante i picchi di vendita, spostando quindi budget verso l’online e verso la brand awareness, perché è il risultato migliore a livello sistemico. L’incrementalità delle promozioni in-store inoltre potrebbe essere misurata attraverso il confronto con campioni di punti vendita non interessati, per ottimizzare il costo delle promozioni valutando l’elasticità al prezzo (e quindi la brand equity).

Per concludere: nessuna misurazione è (e sarà mai) perfetta. Tuttavia per il marketing dell’industria di brand i tempi sono maturi e gli strumenti accessibili per esplorare approcci differenti da quelli del passato. Perché chi primo comincia a testare per primo migliora le proprie azioni, i propri budget e i propri risultati.

Gianluca Diegoli è esperto di marketing digitale, marketing transformation, retail ed e-commerce.
Il suo blog è minimarketing.it