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Marketing ... per tutti i sensi

l'opinione di

Stefania Boleso

Sapevate che il rumore che fa un cereale Kellogg’s quando viene sgranocchiato è unico, e pare sia stato creato in laboratorio per rendere il prodotto (e di conseguenza il brand) ancora più riconoscibile?

Si tratta di un perfetto esempio di marketing sensoriale, vale a dire di utilizzo dei diversi sensi per rafforzare l’identità di una marca e influenzare le percezioni e le emozioni dei consumatori nei confronti di un’azienda o di un brand.

Se ci pensate, non esiste nessuna regola secondo la quale i cosiddetti “elementi tangibili” di una marca siano solo visivi, quindi in primis font, logo e colori.

Allo stesso modo, se lavorare sulla brand image significa cercare di creare associazioni forti, favorevoli e uniche nei confronti della propria marca, tutti i cinque sensi possono contribuire.

Il marketing sensoriale non è una novità; già nel primo decennio degli anni Duemila diversi brand si erano mossi in questa direzione (a questo proposito, consiglio il libro “Brand Sense” di Martin Lindstrom), poi la “grande abbuffata” di digitale, come mi piace chiamarla, ha avuto il sopravvento. Per fortuna gli anni della pandemia ci hanno resi più consapevoli non solo delle opportunità, ma anche dei limiti del digitale, e di conseguenza ci hanno fatto riscoprire le potenzialità di un’esperienza multisensoriale.

La vista è probabilmente il senso più importante, sicuramente il più utilizzato nelle attività di comunicazione: si realizzano campagne e iniziative belle da vedere (ma con l’obiettivo di toccare anche il cuore).

Al secondo posto troviamo l’udito. È scientificamente provato come il suono sia collegato all’umore, così come ai sentimenti e alle emozioni.

Se dico McDonald’s, a molti verrà in mente il famoso jingle. Ma tanti altri punti di contatto con i consumatori sono “punti sonori” che possono aiutare un brand a differenziarsi e farsi riconoscere: oltre all’esempio Kellogg’s citato prima, chi utilizza i prodotti Apple, ad esempio, saprebbe riconoscere ovunque il rumore del cestino di un Mac che si svuota, o il suono di una mail in uscita sull’iPhone.

Alcuni suoni sono poi così caratteristici che vengono introdotti anche quando diventano superflui: Ferrari ha depositato un brevetto negli Stati Uniti relativo a “un dispositivo di riproduzione per la realizzazione di un suono associabile ad un motore elettrico”. In altre parole, il motore delle Ferrari elettriche, in commercio dal 2025, avrà un rumore caratteristico, creato attraverso un nuovo sistema di amplificazione (fonte: Bloomberg)

La stessa azienda ha dichiarato al sito inglese Autoexpress che il team sta lavorando a una “firma sonora” per i veicoli elettrici; “motori tradizionali ed elettrici avranno firme diverse ma susciteranno entrambe sentimenti ed emozioni”.

Non serve però necessariamente avere un suono univocamente riconducibile al proprio brand, basta utilizzare la giusta musica per migliorare la cosiddetta customer experience ed ottenere risultati anche in termini economici: è dimostrato infatti come il ritmo della musica di sottofondo nei negozi e nei ristoranti influisca sul servizio, sulla spesa e persino sul flusso del traffico: più lenta è la musica, più la gente fa acquisti; più la musica è veloce, meno spende.

L’olfatto è collegato alla memoria: sempre Lindstrom ci dice che il nostro stato d'animo migliora del 40% quando siamo esposti ad un profumo gradevole, soprattutto se quel profumo ci riporta a momenti in cui siamo stati felici.

Alcuni anni fa il dottor Alan Hirsch, neurologo e psichiatra specializzato nel trattamento della perdita dell'olfatto e del gusto, ha realizzato un esperimento volto a mostrare il ruolo che l'olfatto gioca nel processo di branding: ha collocato due paia di sneaker Nike identiche in due stanze perfettamente uguali. L'unica differenza era che una delle stanze aveva un leggero profumo floreale, mentre l'altra non aveva alcun odore. L'84% dei partecipanti all'esperimento ha dichiarato di preferire le scarpe della stanza con il profumo floreale, e addirittura pensavano che quel paio di Nike costasse dieci dollari in più.

Questo significa che non sono solo i settori del food & beverage a poter utilizzare l’olfatto nelle proprie attività di comunicazione, al contrario è un’opportunità per tutti i settori: molti si ricorderanno, ad esempio, il profumo unico e persistente del brand di abbigliamento Abercrombie & Fitch, che si sentiva già molto prima di entrare in negozio e che per anni ha rappresentato un elemento distintivo della marca.

Al tatto si pensa poco, ma la texture di un prodotto, oppure il materiale con cui è realizzato il packaging o l'ambiente in cui viene presentato, possono contribuire a creare una percezione specifica, rafforzando l’immagine di marca che si vuole trasmettere. Basta farsi un giro tra gli scaffali dei supermercati per capire che non mi riferisco solo ai settori del fashion e del luxury, le cui boutique sono spesso ricche di legni pregiati e velluti.

Quanto al gusto, forse il senso più difficile da coinvolgere, non manca chi ha fatto dei tentativi “non convenzionali”: pare infatti che un famoso brand di prodotti per l’igiene orale abbia cercato di brevettare il gusto del suo dentifricio e del suo collutorio, per differenziarsi dalla concorrenza.
Mi azzarderei a dire che forse proprio perché il gusto è spesso il senso più difficile da coinvolgere, è anche quello che può fare ottenere a un brand maggiore distintività e riconoscibilità.

Alla luce di quanto scritto finora, appare evidente che una marca dovrebbe trovare il modo di fare appello ai sensi normalmente trascurati, così da andare oltre il tradizionale binomio guardami-ascoltami, tipico dell’ADV tradizionale.

Per ottenere risultati attraverso il marketing sensoriale occorre innanzitutto avere una profonda comprensione del proprio brand, della sua identità e di ciò che vuole rappresentare per il suo pubblico. Solo a quel punto un’azienda può capire in che modo integrare le diverse componenti sensoriali nelle sue attività di comunicazione.

Se l’obiettivo della comunicazione di marca è quello di riuscire a farsi notare, differenziarsi ed emergere tra una moltitudine di messaggi spesso tutti uguali destinati a un pubblico sempre più distratto, coinvolgere più sensi per far vivere al consumatore un’esperienza memorabile è decisamente un’opzione da considerare.
Questo accresce la probabilità per un brand non solo di essere identificato e ricordato, ma anche di essere preferito ai concorrenti e pagato ad un prezzo premium.
È ancora una volta il concetto di brand equity, vale a dire il valore della marca.          

E voi, quali sensi utilizzate normalmente nelle vostre attività di comunicazione e nei diversi punti di contatto con i clienti? Quali altri sensi potrebbero essere stimolati per riuscire a consolidare l’immagine del vostro brand nella mente del pubblico?

Stefania Boleso - esperta di marketing e comunicazione, si occupa di consulenza e formazione per aziende. È inoltre professore a contratto presso l’Università Cattolica.


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