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Prospettive italiane, scenari globali

Dall’assemblea annuale di Centromarca un’analisi del contesto, delle prospettive e delle priorità da affrontare per sostenere la competitività del tessuto produttivo, i consumi delle famiglie e la crescita del paese

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L’eterno presente con il suo carico d’incertezze nel quale il mondo delle imprese e la società tutta sono profondamente immersi rende ancora più sfumati i contorni dei grandi cambiamenti innestati dalla pandemia. Non è ancora chiaro il punto di arrivo, ma si fa strada la convinzione che l’equilibrio precario e imperfetto della globalizzazione si è rotto, anche se la globalizzazione non cesserà di esistere, ma assumerà nuove forme e ricostituirà nuovi equilibri. E comunque, questa volta il “nulla sarà più come prima” assume un’evidenza reale.

Se n’è discusso nel corso dell’assemblea di Centromarca che ha analizzato le prospettive italiane proprio alla luce degli scenari globali. Ne è emersa la conferma di alcuni temi cruciali, che l’Italia si porta appresso da decenni, e di qualche novità. Proviamo a sintetizzarli con tre parole chiave.

Geopolitica

Secondo Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali, le relazioni internazionali, la geopolitica, diventano la variabile più importante in questa fase che tendiamo a definire deglobalizzazione ma sarebbe meglio intendere come insieme di globalizzazioni regionali. Dopo le diverse crisi successive, già a partire da quella del 2008, l’interdipendenza economica significa sì efficienza e prosperità, ma anche un prezzo che si è disposti a pagare per la sicurezza.

L’esempio è quello del rapporto con la Cina, verso la quale Stati Uniti ed Europa hanno interessi convergenti ma non identici. Per i primi infatti è in gioco la supremazia globale (e per questo si parla di decoupling), per l’Europa è in discussione la natura del sistema politico cinese e dei suoi valori, ed è soprattutto un tema di sicurezza (da cui il divesting).

«Per l’Europa il nuovo punto di equilibrio tra efficienza e sicurezza – afferma la politologa – si basa su tre pilastri: la diluizione dei rapporti con la Cina, la diversificazione delle relazioni economiche, la produzione interna dell’Unione europea a evitare il rischio della deindustrializzazione. Per anni si è ritenuto che l’economia fosse la variabile dominante ma a questa si è aggiunta la politica. Ci sono state due ideologie dominanti: l’idea che attraverso gli scambi e il commercio arriverà la pace e quella che attraverso la liberalizzazione arriverà anche la democrazia. E prima o poi a questo arriverà anche la Cina. Ma il capitalismo, si è visto, non porta la democrazia. Non dobbiamo però cadere nella trappola dell’estremo opposto, riportando tutto a casa. Il punto di equilibrio qual è? La diversificazione, per esempio degli scambi energetici, aumenta la nostra resilienza. Come incentivare invece la produzione interna europea? È il tema degli aiuti di Stato e di come si sta articolando il dibattito all’interno dell’Unione europea. La posizione dell’Italia è contraria e spinge per il Fondo europeo per evitare che si ripetano le condizioni che hanno portato alla crisi dell’eurozona. Ma qui cade l’asino. Se non siamo capaci di spendere i fondi che già ci sono stati dati, il nostro potere negoziale nel chiederne altri è quasi nullo. Il nodo è proprio questo, perché l’Italia non riuscirà ad affrontare il tema solo con il ricorso ai fondi nazionali. Serviranno fondi europei ma a oggi abbiamo poche idee per portare avanti le nostre istanze, ipotecando quindi le future richieste a livello europeo».

Inflazione

Di certo c’è che l’inflazione accompagnerà le imprese e i consumatori europei ancora per un paio d’anni e che, nonostante l’opinione comune, nei mercati i tassi d’interesse non torneranno come prima. «Di fatto – afferma Michael Spence, Premio Nobel per l'Economia, docente di SDA Bocconi – siamo alla fine di un periodo pluridecennale di forze deflazionistiche con il passaggio da una crescita vincolata alla domanda a una vincolata all'offerta. In altri termini l'elasticità dell'offerta globale è diminuita. Lo scenario è dominato da una serie di elementi critici. Un terzo della popolazione mondiale invecchia, soprattutto nei paesi le cui economie rappresentano l’80% del Pil mondiale. Alcuni settori importanti resistono ancora alla crescita della produttività abilitata dalla tecnologia digitale. Il debito sovrano nel 2020-2021 ha superato il 100% del Pil, contro il 64-77% nel triennio della crisi finanziaria globale (2008-2010). Ci sono cambiamenti nelle condizioni del mercato del lavoro e carenza di manodopera, oltre a un cambio di mentalità nei confronti del lavoro che “respinge”, insieme alla concentrazione industriale e a problemi di concorrenza».

Se a livello internazionale Spence si attende una crescita lenta, sembrerebbe esserci una controtendenza per l’Italia, ma su un orizzonte temporale più ampio l’inflazione continuerà a costituire una minaccia. Un’inversione di tendenza al rallentamento della produttività arriverà dalle nuove tecnologie e in particolare dall’intelligenza artificiale generativa di cui, dice Spence, «siamo solo al primo capitolo».

Demografia

Dagli scenari globali alle prospettive italiane il passaggio lo fa Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat. Se dal punto di vista economico le cose sono ragionevolmente sotto controllo, la questione determinante per il nostro paese è quella demografica. Nel 2022 per effetto del bilancio natalità-mortalità l’Italia ha registrato 1,5 milioni di residenti in meno rispetto al 2014 e solo nel primo trimestre di quest’anno sono stati 48 mila in meno dell’anno scorso, prefigurando un altro anno di record negativo. Nel 2070, al netto di 130 mila immigrati all’anno, l’Italia si troverà con 11 milioni di residenti in meno rispetto ai 58 milioni e 851 mila del 2023. Con riflessi deflagranti sull’economia. Sono simulazioni, ma proprio per questo hanno un valore previsionale da non sottovalutare. «A parità di altre condizioni, in termine di partecipazione al mercato del lavoro, livello di occupazione e produttività, il solo cambiamento nel numero e nella struttura per età della popolazione italiana potrebbe comportare un minore Pil di 351 miliardi nel 2042 e di 520 miliardi nel 2062, con una variazione percentuale più accentuata nelle regioni meridionali», spiega Blangiardo.

Figura 1 – Simulazione del Pil e Pil pro-capite al 2042 e 2062

    2022 2042 2062
PIL / Occupati A Produttività pro capite (in €) 85.178  85.178 85.178
Occupati / Forza lavoro B Livello di occupazione della FL 91,8%  91,80% 91,80%
Forza lavoro / Pop. età lav. C Partecipazione al MdL 65,3%  65,30% 65,30%
Pop. età lav. / Pop. totale D Quota di popolazione in età 15-64 63,4%  54,60% 54,40%
Popolazione totale E Numero di abitanti (media) 58.940.000 55.890.000 49.992.000
           
PIL (miliardi di €)   AxBxCxDxE 1.909 1.558 1.389
        ( -18%) ( -27% )
PIL PRO CAPITE (€)     32.389 27.876 27.784

Fonte: Istat “Previsioni della popolazione ipotesi mediana adattata alle dinamiche più recenti”

Le stesse sono anche quelle penalizzate simulando il numero delle unità di consumo secondo la scala Ocse, sebbene il dato nazionale non sia drammaticamente negativo (-1,86%) a causa di un maggior numero di famiglie ma con meno componenti con significativi tagli nelle relazioni parentali. Il terzo aspetto legato alla demografia riguarda l’incremento della domanda di previdenza, assistenza e sanità: nel 2051 i residenti con più di 90 anni raddoppieranno dagli 827.561 del 2021 e nel 2070 saranno 2 milioni e 200 mila, con quasi 146 mila ultracentenari. «Occorre intervenire tempestivamente per ridare vitalità alla demografia (recupero della natalità, immigrazione governata, freno all’emigrazione, valorizzazione della componente “diversamente giovane”) e per cercare di compensare le carenze di tipo quantitativo come miglioramenti, innovazioni, diversificazioni sul piano della qualità con una maggiore formazione qualificata, la crescita della produttività, la digitalizzazione e la valorizzazione della silver economy», conclude Blangiardo.

Filiera da ripensare

Se le dinamiche demografiche richiedono una visione di medio-lungo termine che la politica in primo luogo non ha mai saputo o voluto avere, perché nessun governo investe sui prossimi vent’anni senza avere alcun tornaconto elettorale, l’inflazione è la variabile che influenza la quotidianità della filiera del largo consumo, di cui Centromarca è attore primario. E nel botta e risposta tra Maura Latini, amministratrice delegata di Coop Italia, e Francesco Mutti, presidente di Centromarca, non mancano i colpi di fioretto su chi ha la responsabilità di avere trasferito a valle i maggiori costi o lo ha fatto solo parzialmente, su chi ha privilegiato i profitti e chi ha ridotto i margini.

Ma la volontà comune è quella di un confronto aperto, non foss’altro che per aumentare il margine negoziale con le istituzioni. Per Maura Latini se si hanno obiettivi comuni la filiera può esprimere tante potenzialità, ma «il modello di relazione nato in un’epoca e in un paese in crescita è inadatto ai cambiamenti strutturali che stiamo affrontando. C’è la necessità di partire da un’analisi condivisa per una relazione che rilanci nuovamente i volumi delle vendite».

Di un passo avanti parla anche Mutti per la necessità di aumentare il peso politico di una filiera strategica per il Pil: «Dobbiamo lavorare come GS1 Italy su progetti condivisi e ben eseguiti e, con una progettualità di lungo periodo, darci obiettivi di peso. In questo modo la nostra voce in capitolo sarebbe significativamente diversa e potremmo migliorare alcuni aspetti dal punto di vista legislativo ed esecutivo che si riverberano nella capacità di portare migliori prodotti e di qualità continuando, come da ottant’anni a oggi, a incidere sempre meno sulla capacità di spesa del consumatore».

A cura di Fabrizio Gomarasca @gomafab