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Il futuro è una sorpresa

“Infatti a me piace”. Il racconto di Lucia Nepi per "50 volte il primo barcode" descrive un mondo in costante mutamento e ricco di colpi di scena

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Buongiorno Lucia. Cominciamo?
Buongiorno. Proviamoci.

Va bene, partiamo dall’inizio. Quando sei entrata in GS1 Italy, anzi in Indicod: che anno era?
Era il 1989 ma non era nemmeno ancora Indicod. Era IN.DPP, un’associazione nata da poco, oggi diremmo una start-up, e io sono stata assunta perché serviva qualcuno che aiutasse il responsabile a gestirla. All’inizio quindi eravamo solo in due, io e il mio responsabile Andrea Boi. Quello è stato l’inizio, ed è stato importante perché lì ho iniziato a conoscere i mondi di Industria e Distribuzione. Gli uffici di IN.DPP erano alle spalle di quelli di Indicod, dietro via Serbelloni, in via Barozzi [a Milano, ndr]. Dopo qualche anno l’avventura di IN.DPP si è chiusa e io sono passata in ECR Italia.

Anche ECR Italia era appena nata.
Sì. Era il 1993. Al rientro della seconda maternità mi viene offerta l’opportunità di lavorare in ECR Italia. Un’esperienza bellissima che è durata dieci anni. Eravamo in tre ma era come se fossimo in dieci, tutti facevano tutto. Io ero l’assistente, la postina, la contabile, l’addetta al personale. Quando c’era bisogno di qualcosa ci si ingegnava. Organizzavamo gruppi di lavoro, riunioni, eventi. ECR era un'associazione internazionale giovane ma molto attiva: ogni anno c’era un evento organizzato da una delle sedi europee, si viaggiava e si conoscevano anche le altre realtà.

ECR Italia poi si fuse con Indicod.
Sì, alla fine del 2003. Indicod-Ecr era allora l'istituto del codice a barre, un’associazione molto diversa dall’attuale, focalizzata sugli standard e con alcuni progetti, mi ricordo l’agroalimentare, i centri urbani, i primi lavori di studi e ricerche. Era piccola anche l’associazione, eravamo in tutto meno di venti persone.

Quanti ruoli hai ricoperto nel tempo? Qual è stato il tuo percorso?
Io sono entrata in Indicod-Ecr come assistente del direttore generale, che allora era Alvaro Fusetti, un uomo d’azienda che non era abituato alle dinamiche associative ma aveva grandi capacità di adattamento. Ci siamo aiutati a vicenda, ha funzionato. Nel tempo mi sono state affidate anche altre attività, che poi sono le stesse di cui mi occupo anche oggi: amministrazione del personale, affari generali e così via.

Amministrazione del personale, ecco. Tu sei stata, si può dire, una specie di HR manager ante litteram.
Altro che HR. Non si chiamava ancora nemmeno direzione risorse umane, era ancora la “direzione del personale”. Mi ci sono ritrovata dentro, all’inizio ho improvvisato. Ho fatto affidamento sull’esperienza e sul mio carattere. Per fortuna ho questa tendenza a prestare attenzione ai bisogni degli altri.

Perché non ci sono solo gli aspetti tecnici della gestione delle persone, infatti. C’è anche la cura.
Non so se si può dire così ma è vero che caratterialmente mi viene facile avere cura degli altri. Questa azienda per me è “casa”, conosco ogni angolo. Ecco perché è così difficile prendere la decisione di lasciare.

In questo percorso di ascolto delle persone, di cura, quale supporto hai avuto dal management? Hai trovato persone altrettanto sensibili a queste tematiche?
Io mi reputo una privilegiata. Ho avuto la fortuna di lavorare con manager che consideravano i collaboratori prima di tutto delle persone e riuscivano a tirare fuori il meglio dagli altri. Ho avuto con tutti, ma con Bruno Aceto [l’attuale direttore generale di GS1 Italy, ndr] in particolare, un rapporto diretto, trasparente, schietto di grande collaborazione e fiducia. Parlando di me, spero di aver in qualche modo contribuito alla creazione di quello che oggi GS1 Italy è: una realtà in cui possiamo dire di stare bene e nella quale tutti vengono guardati come persone.

Persone che nel tempo sono aumentate molto. Com’è stato questo passaggio da 2 a…
… quasi 90. 87 persone, a oggi, se ho fatto bene i conti.

Tante.
Tante, sì, ci pensavo l’altro giorno. Un salto notevole. Siamo veramente cresciuti insieme. Una crescita dell’organizzazione che ha comportato anche la necessità di nuovi spazi e di una sede diversa, quella che ci vede oggi in via Paleocapa [a Milano, ndr]. Oggi mi guardo intorno, ripenso a quando siamo arrivati in questa sede. Era tutta un cantiere.

E tu in questo cantiere hai avuto un ruolo di primo piano. Hai seguito la progettazione degli uffici e la realizzazione di nuovi spazi (i magazzini, Interno 1…) di via Paleocapa: come ti sei calata in questo ruolo? 
È stato molto naturale. Quando siamo arrivati qui abbiamo buttato giù tutto e ricominciato da capo. Un foglio bianco. Era il 2010, c’era grande entusiasmo. Ogni cosa prendeva corpo giorno dopo giorno.

Ma nessun collaboratore aveva accesso ai lavori, giusto?
Solo le persone indispensabili. Per gli altri volevo che fosse una sorpresa.

Una sorpresa. Se c’è un aspetto che ti caratterizza è proprio il gusto della sorpresa.
È vero, e ho cercato di tenerlo vivo nonostante oggi si sia un po’ persa la magia della sorpresa, dell’inaspettato. Io credo invece che dove si può ancora sorprendere allora perché no? Alle mie figlie dico sempre che è bello credere che sia Babbo Natale a portare i regali, e in casa mia i regali restano nascosti fino alla notte della Vigilia. Oggi ci hanno un po’ portato via la fantasia e a me non piace. Quindi anche qui mi piace fare qualche piccola sorpresa, per esempio comunicare all’ultimo momento dove si farà una certa cena. Ecco perché la nuova sede è rimasta nascosta a tutti fino al giorno dell’inaugurazione.

Quante persone servono per fare una Lucia?
Io non ho mai lavorato da sola. Fare da soli è impensabile, il lavoro è cambiato nel tempo, c’è stato un percorso, ma io ho sempre potuto contare su collaboratori molto validi.

Che caratteristiche deve avere chi domani farà il tuo lavoro?
Quale parte del mio lavoro? Scherzi a parte, il mio lavoro è fatto di molti aspetti. In qualche ambito la successione, se possiamo chiamarla così, è già in atto. Il team che si è formato per la parte amministrativa, per esempio, è eccellente. Sono molto fiduciosa. Parlando di caratteristiche personali non saprei fare un elenco, ma so come sono fatta io. Sono disponibile e attenta ma anche esigente: prima di scegliere le persone che collaborano con me devo assicurarmi che siano le persone giuste. Certo, poi c’è anche l’esperienza: si possono fare tutti i passaggi di consegne del mondo ma l'esperienza e la conoscenza sono uniche, non si possono trasferire.

Massimo Bolchini, nel suo articolo, ci parlava della difficoltà di staccarsi dalle persone ancora prima che dal lavoro in sé. Sei d’accordo?
Assolutamente sì. La cosa difficile non è tanto passare le cose da fare a qualcun altro ma imparare a staccarsi dalla relazione. I legami che ho creato qui sono professionali, nel senso che io non sono mai stata “l’amica di tutti”, però sono anche profondi a sufficienza per entrare in sintonia con le persone, senza invadere gli spazi, con discrezione, rimanendo in ascolto. È così che sono riuscita a instaurare rapporti di fiducia. Ecco, possiamo dire così: mi piace fare in modo che le persone si fidino di me.

Sono cambiati i tempi, dicevamo. Anche fra colleghi.
Sì, probabilmente apparteniamo a una generazione che impostava il lavoro in modo diverso. Sulla mia segreteria telefonica non c’è mai stato un messaggio per quando non sono raggiungibile: per me è impensabile essere irreperibile, nella mia testa devo esserci sempre. È il senso di appartenenza che mi contraddistingue, in qualche modo. Mi viene naturale perché, come dicevo prima, questa azienda per me è casa. Mi ricordo quando è arrivata la pandemia da Covid, abbiamo passato una notte ad avvisare le persone che il giorno dopo non dovevano andare in ufficio. È stata un'esperienza pazzesca da cui è nata una modalità di lavoro che sembrava inimmaginabile e che però oggi è normale e funziona.

Non si sa mai cosa ci riserva il futuro, insomma.
È una sorpresa. Infatti a me piace.

Lucia Nepi, assistente CEO di GS1 Italy, è stata intervistata da Francesco Fracassi

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