economia

La crescita demografica perduta

L’Italia ha attraversato varie fasi di crescita della popolazione nel secondo dopoguerra. Per la prima volta nel 2015 si è registrato un declino. Lieve di per sé, ma preoccupa il fatto che i dati reali sono sensibilmente peggiori rispetto alle previsioni. Perché è un errore ignorare la demografia.

La crescita spinta dalle nascite

L’Italia ha attraversato varie fasi di crescita nel secondo dopoguerra. È stata un paese in cui l’incremento naturale e i flussi migratori si sono combinati in vari modi. Negli anni Sessanta eccedevano sia le nascite che gli espatri. Negli anni Ottanta entrambi i fenomeni si sono assopiti. Sul finire del XX secolo abbiamo ritrovato la crescita, ma con dinamiche opposte rispetto agli anni Sessanta: poche nascite e crescente immigrazione. E ora siamo forse all’inizio di un nuovo ribaltamento di scenario: per la prima volta nel 2015 la popolazione italiana risulta in declino.
Al momento dell’Unità d’Italia eravamo 26,3 milioni di abitanti (ricalcolati ai confini attuali). Al primo censimento dell’Italia repubblicana, nel 1951, la consistenza demografica del paese risultava di circa 47,5 milioni. Una crescita secolare prodotta dalla “transizione demografica”, ovvero dal passaggio dagli elevati livelli di mortalità e di natalità del passato ai bassi livelli propri delle società avanzate contemporanee. Dato, infatti, che la mortalità ha iniziato a ridursi prima della natalità, l’esito è stato una eccedenza di nascite che ha spinto la popolazione a crescere.
I primi decenni del dopoguerra sono poi stati un periodo caratterizzato da una nuova effervescenza demografica, che ha toccato l’apice con il baby boom a metà anni Sessanta.

La crescita sostenuta dall’immigrazione

Al censimento del 1981 gli abitanti del paese risultano essere 56,5 milioni. Nei due decenni che concludono il XX secolo la popolazione rimane sostanzialmente ferma, tanto che al primo censimento del nuovo secolo l’ammontare dei residenti in Italia si trova ancora poco sotto i 57 milioni. Anziché crescere, la popolazione invecchia. Dopo aver abbattuto i rischi di morte nelle età infantili, giovanili e adulte, i guadagni di vita si spostano in età anziana. Verso la fine degli anni Settanta il numero medio di figli per donna scende definitivamente sotto la soglia di due facendo entrate l’Italia in una fase in cui le generazioni dei figli sono sistematicamente meno consistenti di quelle dei genitori. La piramide inizia a rovesciarsi.
A compensare in parte tale processo interviene però l’inversione dei flussi migratori: dall’eccedenza delle uscite fino agli anni Settanta si passa, negli anni Novanta, a una progressiva, inedita, eccedenza delle entrate dall’estero. È solo grazie a questo che la popolazione nel primo decennio del XXI secolo torna a salire in modo rilevante (figure 1 e 2). Al censimento del 2011 i residenti in Italia sono oltre 60 milioni. Al primo gennaio 2015 il dato è pari a 60,8 milioni. Se però si considerano solo i cittadini italiani si scende a circa 55,7 milioni, meno del censimento del 1981.

La crisi e lo scenario del declino

Lo scenario futuro è quello di una popolazione autoctona che diminuisce e invecchia: vedremo impoverire soprattutto la parte più giovane e quella delle età adulte al centro della vita riproduttiva e lavorativa del paese. Per non condannarci anche al declino economico e all’insostenibilità dello stato sociale, è uno scenario che chiede come risposta politiche lungimiranti sui meccanismi di rinnovo demografico, favorendo di più la scelta di avere figli e gestendo meglio l’immigrazione. Ignorare la demografia è stato uno degli errori fatali del nostro percorso di sviluppo negli ultimi decenni.
Può essere istruttivo, allora, leggere la recente crisi economica come il “Canto di Natale” di Dickens, ovvero come l’anticipazione di quello che potrebbe essere il nostro futuro se non interveniamo per tempo. Dal punto di vista demografico nel corso del 2015, per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, la popolazione complessiva è diminuita. La riduzione è stata lieve (-139 mila unità secondo la stima dell’Istat. Ma il dato è ancora più eclatante se lo si confronta con le previsioni prodotte dall’Istat solo cinque anni prima (base 2011): la differenza risulta di oltre un milione di residenti (60,7 milioni contro 61,8 milioni). Conseguenza di un raffreddamento delle entrate dall’estero, un aumento delle uscite, un affossamento delle nascite (che nel 2015 hanno toccato il punto più basso dall’Unità a oggi) con ampliamento del divario negativo rispetto ai decessi (in progressivo aumento per l’invecchiamento della popolazione). Un indebolimento, quindi, delle componenti della crescita sensibilmente peggiore rispetto alle previsioni (figure 3 e 4).
La crisi, insomma, ha colpito duramente, ma nulla in confronto al futuro che ci aspetta se non impariamo a prendere la demografia seriamente.

Elaborazioni de lavoce.info su dati Istat - Guarda i grafici

A cura di Alessandro Rosina, lavoce.info