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Crescita economica: lo stellone italiano non basta più

Anche l’annuale assemblea dell’Associazione delle Industrie dei Beni di Consumo conferma lo stato di incertezza, stagnazione e pessimismo diffuso di fronte a quella che si annuncia come una recessione difficile, con il rischio che si trasformi in una nuova edizione della crisi acuta del 2011-2012.

Nel quarto trimestre 2018, secondo i dati di IBC - Associazione delle Industrie dei Beni di Consumo - produzione di beni di consumo e vendite al dettaglio avevano registrato un leggero aumento (rispettivamente +0,2% e +0,3%), ma da gennaio 2019 il quadro è peggiorato, con un calo di ordinativi delle imprese, un peggioramento delle prospettive da parte delle famiglie, con un trasferimento delle risorse disponibili dalla spesa al risparmio.

Figura 1 - Il 2019 si apre all'insegna di nuove difficoltà

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Fonte: Ref Ricerche

«La crescita è ferma. L’incertezza frena le scelte delle aziende, delle famiglie e degli investitori. L’economia ha bisogno di una scossa, lo Stato di riforme» è l’appello di Aldo Sutter, presidente di IBC, sottolineando contemporaneamente chela capacità di convincimento e di influenza del sistema delle imprese del largo consumo nei confronti delle istituzioni è prossimo allo zero. Eppure le 32 mila imprese alimentari e non alimentari dei beni di consumo valgono quasi il 30% del Pil generato dal sistema industriale - 70 miliardi di euro su 250 miliardi - e occupano un milione di addetti.

IBC tra domanda interna in calo ed export necessario

Nel delineare lo stato di salute del comparto (pubblicato nel volume Ibc Trends 2020), Fedele De Novellis di Ref Ricerche sottolinea come, pur essendo stato sottoposto a un’opera di selezione del tessuto produttivo al pari del resto dell’industria italiana, il comparto dei beni di consumo abbia avuto nell’export uno sbocco necessario per rispondere alla caduta della domanda interna. «Tra il 2014 e il 2017 il valore delle esportazioni manifatturiere è cresciuto di oltre 12 punti percentuali, quello messo a segno da IBC è stato di circa 14 punti», dice De Novellis. E l’Industria dei beni di consumo contribuisce per un terzo alle esportazioni complessive italiane.

Cambia anche la geografia dei mercati di sbocco del commercio internazionale con un ribaltamento tra paesi avanzati, che nel 1980 rappresentavano il 63%, e paesi emergenti che nel 2017 sono stati il 59%. Tra questi, la Cina, a partire dagli anni Novanta destinazione privilegiata per la delocalizzazione produttiva, oggi diventata un mercato di sbocco che acquista dall'Italia un valore rilevante dei beni di consumo importati, grazie al formarsi di una nuova classe media di consumatori. Spiega De Novellis: «L’allargamento di questa fascia di nuovi consumatori accresce il mercato potenziale per molti prodotti italiani. La tendenza all'aumento delle importazioni di beni di consumo da parte della Cina, anche per prodotti di fascia medio alta, comporta che nei prossimi anni il mercato cinese acquisirà un ruolo di primaria importanza per i produttori di beni di consumo italiani».

Figura 2 - La sfida della crescita cinese

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Fonte: Ref Ricerche

Il maggior rilievo del commercio internazionale anche per l’Industria dei beni di consumo si innesta su uno scenario internazionale contraddistinto dal tentativo della Cina di penetrare nella sfera di influenza Usa, soprattutto in Europa. «Nel progetto di controglobalizzazione cinese – afferma Lucio Caracciolo, direttore di Limes – l’Italia al centro del Mediterraneo svolge un ruolo di collegamento essenziale. Se la Cina vuole ritornare a essere la prima potenza mondiale, l’Italia si muove in una carenza di regia e programmazione, senza un coordinamento e una visione a dieci anni. Nel disegno delle nuove vie della seta, la rete portuale del Mediterraneo mostra quanto poco l’Italia sfrutti la sua capacità portuale, tanto che i porti del Nord Europa sono più convenienti per infrastrutture e supporti tecnologici».  Secondo Caracciolo per l’Italia è il momento di compiere delle scelte nel quadro internazionale, sia che si pensi al porto di Genova come sotto hub di quello di Rotterdam o al porto di Triste come accesso all’Europa centro orientale o ancora che si guardi alla Tav come parte del corridoio europeo invece che limitarsi alla singola tratta Torino-Lione è tempo di avviare una regia unica e di abbandonare la concorrenza interna tra territori e poteri regionali. «In Europa siamo in una fase di disgregazione della costruzione comunitaria e di riaggregazione tra paesi che hanno storie diverse, uniti dall’idea di sovranismo. L’Italia deve compiere scelte e la cosa peggiore sarebbe far parte dell’internazionale dei nazionalisti», conclude Caracciolo.

Tornando all’Industria dei beni di consumo, De Novellis rileva come l’export abbia consentito al settore di recuperare, soprattutto nell’ultimo triennio, il calo produttivo rispetto a dieci anni prima. Sebbene nel 2018 la produzione abbia registrato una diminuzione del 10% rispetto al 2008, negli ultimi tre anni è aumentata del 5,5% anche in presenza di una domanda interna non ancora dinamica. IBC si conferma dunque un settore che, nonostante le difficoltà, ha una quota di valore aggiunto prodotto sul totale dell’economia del 4,3%.

Nel comparto spicca il settore alimentare che ha dimostrato una maggiore tenuta dei livelli produttivi negli anni della crisi, ma nel periodo giù recente sta mostrando un recupero più graduale, con un aumento della produzione del 5% tra il 2015 e il 2018. Nonostante l’export, l’industria del food dipende ancora in gran parte dai consumi delle famiglie, il cui andamento è stato tendenzialmente cedente e anche in prospettiva presenta spazi di crescita limitati.

Non va dimenticato che pesano, sulle spese per i consumi, le scelte di gran parte delle imprese che nel corso degli anni hanno difeso la competitività dal lato dei costi riducendo il costo del lavoro, alimentando ulteriormente in tal modo la frenata dei consumi.

Per il futuro «L’industria alimentare si confronterà con un mercato interno sostanzialmente maturo, penalizzato anche da trend demografici sfavorevoli in termini di dimensione della popolazione e di composizione demografica», rileva De Novellis.

Debito al 3,5%

La forte dipendenza dai consumi interni dell’industria dei beni di consumo sposta inevitabilmente lo sguardo verso il quadro economico nel suo insieme. Secondo Carlo Cottarelli, presidente dell’Osservatorio Conti pubblici dell’Università Cattolica, nonostante le previsioni negative dell’Ocse (-0,2% il Pil nel 2019), ci si può attendere per quest’anno una crescita dello 0,3-0,4% grazie a una ripresa nella seconda parte dell’anno, dovuta essenzialmente a un recupero a livello europeo e a un effetto positivo sulla domanda aggregata del reddito di cittadinanza e di quota 100. «È uno scenario di base in presenza delle condizioni dette, ma è lo scenario migliore possibile, perché non ci sono le condizioni per una ripresa della crescita, visto che la ricetta proposta dal governo basata sull’aumento del debito non funziona e non ha mai funzionato. Allo stato attuale il debito pubblico quest’anno salirà al 2,4% e l’anno prossimo senza aumento dell’Iva aumenterà al 3,5%, per le risorse necessarie a coprire le spese per quota 100 e reddito di cittadinanza», è l’analisi di Cottarelli.

Ma c’è anche un altro scenario. Peggiorativo. Il rischio sono il rallentamento dell’economia europea e la recessione tedesca. «Se si verificassero queste due convergenze disastrose – spiega Cottarelli – per l’Italia si riaffaccerebbe lo spettro della crisi del 2011-2012, perché il nostro Paese è molto vulnerabile agli shock. L’Italia negli ultimi vent’anni non è andata bene, il reddito pro capite degli italiani è fermo al 1997 e il sistema produttivo continua a perdere competitività. Anche nel commercio internazionale perdiamo quote di mercato. Tutti elementi di fragilità che permangono». In questo secondo scenario, il debito pubblico aumenterebbe di ulteriori tre punti, innescando una spirale che va dall’aumento incontrollato dello spread alla crisi delle banche, con quel che ne consegue.

La ricetta? È quella di sempre, vale a dire favorire la crescita, evocata anche da Sutter, e richiamata continuamente da Cottarelli e da economisti ed esperti. E per favorirla occorre eliminare le inefficienze e ridurre i costi per le imprese (30-35miliardi solo per compilare moduli), favorendo gli investimenti per aumentare la produttività. Eliminazione della burocrazia e della lentezza della giustizia civile, riduzione dell’evasione fiscale e lotta agli sprechi della spesa pubblica sono ancora lì, fermi, a indicare i provvedimenti più impellenti. Da anni.

E risuona il monito lanciato da Ferruccio De Bortoli alla platea di imprenditori e manager a far sentire la propria voce e a prendersi la responsabilità come classe dirigente per una riscossa civica e morale, a «dire con coraggio le cose che devono essere fatte a costo di deteriorare i rapporti con il governo».

In queste condizioni affidarsi allo stellone italiano può non bastare più.

A cura di Fabrizio Gomarasca @gomafab