tecnologia distribuzione

E-commerce Food 24

l'opinione di

Gianluca Diegoli

Osservando le posture degli speaker all’evento Ecommerce Food Conference 2024 si nota una netta differenza tra le parti del settore, sopra e sotto il palco. C’è un’audience abbastanza pessimista e attendista, ce n’è un’altra più ottimista ed entusiasta. I due segmenti corrispondono grossomodo alla suddivisione che McKinsey ha presentato del mercato del food online: grocery (“il supermercato online”) vs specialty (“piccoli aggregatori o produttori di prodotti di nicchia”), con il segmento del delivery, come Deliveroo e JustEat, un po’ in mezzo al guado, tra concentrazione di mercato a causa dei costi alti e margini ridotti e rallentata crescita di lungo periodo.

Per tutte le parti in causa l’e-commerce del food post-Covid è guidato da andamenti apparentemente discordi: c’è l’inevitabile ritorno a comportamenti consueti ma con l’innesto di abitudini pandemiche (l’aspettativa di reperibilità di qualunque cibo, anche del più raro e introvabile, per una ritrovata passione ai fornelli, ma anche lo sdoganamento del delivery urbano associato all’abitudine consolidata al pasto pre-cucinato o parzialmente pre-porzionato). In questo scenario, i più in difficoltà sembrano essere proprio i grandi retailer, alle prese con dinamiche sociali estese tipiche del loro target principale (stipendi bassi, inflazione, concorrenza del discount fisico, ma anche i problematici rapporti con l’industria di marca, spesso un ulteriore competitor online) e anche – come ha chiaramente fatto intuire Gian Maria Gentile di EasyCoop – la ricerca di un posizionamento, di un modello di business che non sia puramente logistico. Cioè trovare una via differenziale e premium per la spesa al supermercato portata a casa, visto che l’attuale assetto lascia alla grande distribuzione (con questi numeri di spese in Italia ben inferiori a quelli anglosassoni) e questi assetti organizzativi (in cui i dark store sono ancora pochi e spesso sotto-sfruttati) ben pochi margini economici. Anche gli scenari futuri non sembrano così rosei. McKinsey svela due scenari: nell’ambito dei paesi digitalmente in via di sviluppo come l’Italia la forbice dell’acquisto di cibo online nel 2030 si pone tra un ottimistico 8% (dal 3% attuale) fino a scendere allo scenario più pessimistico del 4%.

Quello di rendere l’e-commerce grocery profittevole è evidentemente un obiettivo non facile da ottenere, anche perché l’offerta globale del food online sembra infinita, contrariamente a quella dei supermercati online italiani in cui le referenze sono spesso inferiori a quelle di un supermercato di medie dimensioni, cosa che non accade in nessun altro settore merceologico. Temi di costo, deperibilità, stoccaggio, trasporto refrigerato e no, ben noti tra gli addetti ai lavori che però lasciano indifferenti i consumatori, abituati solamente a valutare prezzo, disponibilità e servizi di app e siti, come si dice, lontani solamente un clic l’uno dall’altro, in modo prettamente utilitaristico. Se la fedeltà in punto vendita è limitata, con l’alta concentrazione di metri quadrati di superfici in aumento - cosa che rende lo switch di insegna sensibile a promozioni, sottocosti e altre promozionalità - ancora più limitata risulta la fedeltà quando si fa la spesa online. E dunque ri-fidelizzare l’utente – continua Gentile di EasyCoop – è sempre più costoso. L’infedeltà contribuisce a restringere i margini e ad ampliare le perdite economiche annuali del grocery online, solo parzialmente ripianabili da un futuro introito da retail media e (moralmente) dalla consapevolezza di offrire un servizio a un utente omnicanale e premium, di indubbio valore nel lungo termine.

Anche le tematiche della sostenibilità rappresentano una sfida, e soprattutto sono importanti specialmente per i consumatori a reddito più alto, quelli che possono apportare più margini ai bilanci: il trasporto di cibo online richiede spesso imballaggi a prova di filiera di trasporto logistica che però lasciano perplesso chi acquista: buste di plastica che contengono a loro volta ortaggi imballati nella plastica, spesso imballaggi pensati per una esposizione in scaffale e non per l’invio a casa. Solo la metà delle persone dice di essere disponibile a pagare per un imballaggio più sostenibile.

Insomma, visto lo scenario, si comprende perché il grocery online sia meno ottimista, orientato all'ottimizzazione e al taglio dei costi, al ripensamento delle esperienze di acquisto – «spesso fare la spesa online comporta più tempo che farla in negozio» si lascia scappare un partecipante al panel del grocery – e alla ricerca di modalità meno costose per agevolare la ripetizione della spesa.

Il florilegio di piccoli store “artigianali” visto a Ecommerce Food ha una gran voglia di emergere, ed è in generale cautamente ottimista: l’aumento dei consumi online ha alzato la domanda molto più di quanto abbia aumentato i loro costi, spesso ridotti ai minimi termini, anche grazie alla tecnologia sempre più a basso costo e in cloud. La maggior parte degli store online medi e piccoli, in gran parte aperti come ulteriore canale per distribuire i propri prodotti durante il Covid, oggi inoltre possono contare su strutture logistiche e di consegna migliorate ed esternalizzate, meno costose e più flessibili, e sull’esperienza pregressa e spesso accelerata dalle circostanze in tema di marketing e advertising. Sì, perché in questo “campionato minore” le tattiche digitali possono ancora fare la differenza in quello che è un mercato altamente frammentato, in cui basta relativamente poco per strappare traffico alla concorrenza e aumentare i ricavi in termini percentuali. Negli speech dell’evento si è notato come abbia un certo peso utilizzare al meglio le email del proprio database per fidelizzare, fare upsell e cross sell, gestire l’advertising oculatamente ottimizzando i costi di acquisizione, farsi aiutare dalla AI generativa per produrre contenuti e mantenere una buona indicizzazione organica (SEO), utilizzare piattaforme online a basso costo di mantenimento come Shopify, integrando tramite il cloud magazzino, fatturazione, logistica, customer care: tutti questi punti possono decisamente fare ancora la differenza. E l’e-commerce assume a volte anche un altro ruolo, spesso cruciale per queste aziende: quello di aiuto per l’industria di marca nel b2b, con l’obiettivo di efficientare il trade, migliorando l’efficienza della filiera e, in alcuni casi, vendendo direttamente a piccoli b2b come bar e negozi e ampliando così la propria area di distribuzione in Italia e all’estero.

Cosa portarsi a casa come insight finale? In un mondo affollato l’esperienza utente è spesso la discriminante principale assieme al prezzo, spesso a scapito della tradizionale legacy di brand. Il servizio sembra prevalere in molti casi sul prodotto, più facile da comparare ed emulare. Ed ecco che anche brand tipicamente orientati alla vendita in GDO come Borbone lanciano sottoscrizioni e abbonamenti per le proprie capsule e cialde. Si tratta di fidelizzare il proprio consumatore attraverso la servitization, cioè il passaggio di mindset aziendale da fornitori di prodotti a fornitori di un servizio attorno al proprio prodotto. Allo stesso tempo, c’è chi decide formalmente il percorso inverso, come Cortilia, in cui la iconica cassetta di verdura in abbonamento raggiunge ora solo il 13% dei consumatori, un percorso contrario svolto sempre però nella logica di capire, negli inevitabili trade-off tra larghezza, profondità dell’assortimento e rapidità di consegna, il proprio modello ottimale di servizio per differenziarsi in un mercato in cui invece i prodotti, sempre più, non possono essere esclusivi di un singolo rivenditore online.

Gianluca Diegoli è esperto di marketing digitale, marketing transformation, retail ed e-commerce.
Il suo blog è minimarketing.it