marketing sostenibilità

“Salvate il cibo Ryan” dallo spreco

l'opinione di

Manuela Soressi

Lotta allo spreco alimentare o marketing no waste?

Dove finisce la (sacrosanta) lotta allo spreco alimentare e dove comincia il marketing del “no waste”? La questione si fa via via più complessa mano a mano che cresce la consapevolezza della necessità di evitare che, ancora oggi, circa il 17% della produzione alimentare globale totale finisca nell’immondizia. Alla coscienza etica si unisce la sensibilità per l’ambiente e il futuro del nostro pianeta: approcci nobili a cui ha fatto da detonatore, però, un tema più prosaico, quello della convenienza economica. Risparmiare risorse e materie prime per i produttori, risparmiare sullo smaltimento e sui resi per i distributori e risparmiare sulle spese di casa per i consumatori: ecco la formula perfetta per far decollare le iniziative e i progetti contro lo spreco alimentare.

Parafrasando il titolo di un famoso film, si potrebbe dire che il motto è diventato “Salvate il cibo Ryan” dallo spreco: via alla riabilitazione (anche estetica nell’onda dell’ugly beauty) dei prodotti agricoli imperfetti ma buoni, alla vendita a prezzi scontati dei cibi prossimi alla scadenza, alla creazione di carrelli della spesa super convenienti perché riempiti con prodotti che altrimenti sarebbero fuori mercato per finire con gli e-grocery che valorizzano

i prodotti alimentari non accettati nei soliti circuiti commerciali. Far parte di questo circuito come produttori, distributori o consumatori ci fa sentire virtuosi.

Ma già in questo Eden si insinua il dubbio da cui siamo partiti. Quanto sono realmente efficaci queste operazioni? Quanto questa crociata, più lodevole negli intenti, rischia di tramutarsi in esercizio retorico o populista? E quando si tratta di operazioni di facciata (una sorta di “waste washing”) che nascondono un nuovo genere di business ammantato di eticità?

Gli esempi sono tanti. Le sfilettature dei salumi o le croste dei formaggi grana confezionate sottovuoto e vendute a prezzi non proprio da stock. La crescente diffusione dei servizi nati per evitare di gettare il cibo invenduto di giornata ma che ormai propongono tanti prodotti conservati e dalla lunga shelf-life. Gli outlet aziendali presentati come spaccio per smaltire le giacenze di magazzino, i siti di e-commerce nati per valorizzare i prodotti imperfetti e i mercati contadini che dovrebbero vendere solo prodotti a kilometro zero e che invece sono tutti diventati veri e propri market che offrono un po’ di tutto.

Il confine tra misure anti-spreco e campagne di marketing o di promozione pare davvero labile.

Manuela Soressi è giornalista professionista, esperta di consumi e food & beverage, consulente di comunicazione corporate, autrice di saggi.