consumi

Scorte più leggere, un risparmio sorprendente

l'opinione di

Manuela Soressi

È arrivato il momento di scongelare la parola “stock”. Ma anteponendole il prefisso “de”. Ossia entrando nel mondo del destocking (destoccaggio, alleggerimento delle scorte, ndr), cogliendo (prima che lo facciano altri) il vento che arriva dall’Europa continentale. E soprattutto dalle vicine Francia e Spagna, dove si assiste alla rapida crescita di catene distributive specializzate in destocking di prodotti di ogni genere, provenienti da produttori e grossisti, da fallimenti e dismissioni. Spesso si tratta di sovraproduzione o di fine serie, e ancora più spesso di prodotti alimentari non accettati dalla GDO perché non adeguatamente calibrati, perché ritardati nelle consegne o perché danneggiati durante il trasporto. Una mole di merci ancora integre e vendibili ma che, per varie ragioni, vengono rifiutate dai retailer tradizionali e devono trovare nuovi canali commerciali per evitare di finire sprecate. Un problema enorme su vari fronti (in primis quello sostenibile) a cui i destocker provano a dare una soluzione, con una proposta win-win-win: loro crescono e fanno affari, i produttori e i commercianti si liberano di un problema e i consumatori comprano risparmiando fino al 70% rispetto a comprare in GDO.

Dai grandi brand del fashion al food, dall’arredamento al bricolage, catene come Noz, Frais Malin, Primaprix, Sqrups e Action (presente anche in Italia) stanno conquistando terreno e clienti. Forti di una proposta precisa e allettante: i prezzi più bassi di sempre (anche del web). Mission comprovata dai fatti: alcuni giornalisti hanno confrontato gli scontrini della stessa spesa fatta in un ipermercato e uno stockista rilevando una differenza di prezzo del 50%. Ma la convenienza non è tutto. O, perlomeno, da sola non basta per dar conto del successo di questa formula.

Molto si deve anche a una formula chiara e trasparente: le insegne dichiarano

apertamente che si tratta di stock di prodotti acquistati direttamente dai produttori o da intermediari desiderosi di sbarazzarsene e segnalano anche spesso il “difetto” della merce, ad esempio uova molto piccole oppure prodotti che hanno superato il termine minimo di conservazione. Uno sforzo di comunicazione che consolida l’immagine di retailer amici” dei consumatori e dell’ambiente, e che ne enfatizza il ruolo sociale, costruendo un rapporto di fiducia con i clienti. Ma anche il focus su un’attività che incrocia due grandi trend del momento: la lotta allo spreco alimentare e la riduzione degli scarti e delle merci irrecuperabili. Quindi, al di là del risparmio, entra in gioco anche l’asse valoriale della sostenibilità dei consumi e dell’economia circolare. Perlomeno come giustificazione etica quando si rimette mano al portafoglio per dedicarsi a nuovi acquisti.

Aggiungiamo un terzo elemento, da non sottovalutare: l’effetto wow. In questi punti vendita di medie e grandi dimensioni l’assortimento non è programmato né prevedibile perché i rifornimenti dipendono da quello che lo stockista trova sul mercato e da quanto è bravo ad aggiudicarselo al miglior prezzo. Il che genera una inedita complessità per questi retailer, mentre ai clienti assicura il brivido della sorpresa. Un piacere sempre meno coltivato dai retailer classici, impegnati su fronti molto più razionali come la convenienza, dimenticando che l’uomo è un animale razionale, come asseriva già Aristotele, e che l’emotività incide in modo importante sulle decisioni di acquisto.

Emotività che viene sollecitata dagli stockisti anche grazie anche a un’altra leva: la possibilità di fare un buon affare. Come resistere all’idea di aggiudicarsi una blusa Armani per 30 euro, un monopattino elettrico a 130 euro o una scatoletta di caviale pregiato a 5 euro. E soprattutto come resistere sapendo che o li si compra ora o (forse) mai più?

Manuela Soressi è giornalista professionista, esperta di consumi e food & beverage, consulente di comunicazione corporate, autrice di saggi.