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Investimenti in comunicazione. Guai a togliere il piede dall’acceleratore!

l'opinione di

Filippo Genzini

Si leggono con sconforto i dati di Nielsen sull’andamento del mercato della pubblicità in Italia nei primi 4 mesi del 2013, dove un -18,7% sul periodo corrispondente va a sommarsi, ahimè, al -14,3% con cui aveva chiuso il 2012 rispetto all’anno prima. Né tranquillizzano più di tanto le previsioni di Assocom pubblicate dal Sole 24 Ore, che parlano di una chiusura 2013 a -12,5%. Anche l’anno passato gli operatori del settore hanno cercato fino all’ultimo di minimizzare l’entità della pendenza lungo la quale sta rotolando il mondo della comunicazione italiana, travolgendo tutti i principali protagonisti. Purtroppo, non ci si può nemmeno illudere che si tratti di un flusso significativo di budget dai mezzi più ‘costosi’ a quelli più economici, perché non si salva nessuno, nemmeno il digitale che, per la parte misurabile, fa segnare nel primo quadrimestre 2013 un modesto +1,4%, ben al di sotto delle aspettative generate da un comparto in continuo fermento. Gli investimenti in comunicazione misurabile, che avevano sfiorato i 10 miliardi di euro prima della crisi, nel giro di pochi anni sono collassati a 7, mostrando una correlazione addirittura ‘punitiva’ con il PIL e l’andamento dei consumi. Quali le possibili spiegazioni?

Una prima può essere offerta dalla straordinaria prudenza posta in essere da molte aziende, che attendono di vedere i segni tangibili dell’inversione di tendenza prima di riallargare i cordoni della borsa. Una seconda attiene al drenaggio di risorse imposto da politiche promozionali sempre più spinte, da parte di molti comparti merceologici nel tentativo di rivitalizzare gli acquisti nei negozi, e in quelli della distribuzione moderna in particolare. Come si sa le vendite realizzate in promozione nel 2012 hanno rappresentato il 27,7% del totale (+1% sull’anno precedente), dato ancora in crescita nei primi mesi di quest’anno. La terza, infine, è rappresentata dall’opportunità, sfruttata dai reparti marketing più orientati all’innovazione, di dirottare dei budget consistenti sulla parte non misurabile delle attività digitali come i social media e i blog, che offrono interessanti possibilità di stabilire una relazione diretta con il proprio pubblico.

Un fenomeno questo contingente che si innesta però sulla tendenza di tipo strutturale che riguarda la straordinaria evoluzione del mondo digitale, e le sue ricadute sui mezzi di comunicazione, sul marketing e sulla pubblicità. Si pensi che solo negli Stati Uniti nel 2012 sono state ascoltate 22 miliardi di canzoni in streaming (fonte Nielsen). E l’International Federation of the Phonographic Industry prevede per fine 2016 il sorpasso delle vendite digitali (compresi i biglietti per i concerti) su quelle fisiche. Pandora, intanto, ha già raggiunto i 2.5 milioni di ascoltatori online in auto, mentre molti produttori di veicoli stanno pensando di eliminare dalla dotazione le radio am/fm. In parallelo la fruizione di film online passerà dal 13% del 2012 al 25% nel 2017. Già oggi, ogni minuto, vengono caricati video pari a 100 ore di visione, insieme a 500 milioni di foto.

I problemi maggiori, anche sull’altra sponda dell’Atlantico, li sta incontrando il mondo della carta stampata. Secondo il Global Entertainment and Media Outlook di PricewaterhouseCoopers, per esempio, si prevede che, sempre negli Stati Uniti, i quotidiani continueranno a perdere fatturato a un tasso medio del 2,9% fino al 2017 per l’effetto contrapposto della crescita delle sottoscrizioni e della flessione media degli investimenti pubblicitari del 4,2% (risultato a sua volta di una crescita del 9,7% di quelli digitali e di una caduta del 7,8% di quelli cartacei).

Non è un caso, allora se al primo posto nel ranking mondiale dei primi 30 editori, si trova Google, con 37,9 miliardi di dollari di business di competenza. Né che in questo Olimpo siano entrati per la prima volta nel 2012 anche Yahoo, Facebook e Microsoft. E neppure che già il 39% del fatturato complessivo di questo club ristretto provenga da media digitali.

Il cerchio, dunque, si chiude, o almeno dovrebbe, anche attraverso un trasferimento più o meno spontaneo di risorse economiche, ma anche professionali, dall’offline all’online. Televisioni ed editori si stanno attrezzando. Come anche i grandi motori di ricerca, i social network, le web agency, i centri media, le società di relazioni pubbliche e quelle di promozioni.

La sfida, ora, che coinvolge insieme editori e inserzionisti pubblicitari, riguarda le modalità più efficienti per relazionarsi con il pubblico del nuovo millennio, molto diverso per abitudini, atteggiamenti, attitudini e aspirazioni rispetto a quello che tutti conoscevano bene.

Così, finalmente, si stanno profilando nuovi indirizzi, dopo l’errore iniziale di replicare i modelli già noti di pubblicità intrusiva attraverso i banner e la display advertising, ottenendo gli stessi effetti dell’offline in termini di affollamento, rigetto, nonché difficoltà di misurazione dei risultati oggettivi.

I mezzi classici, per l’appunto, hanno sfruttato al massimo i propri punti di forza vendendo numeriche elevate di contatti ‘di massa’ per veicolare una comunicazione ‘muscolare’, basata su rapporti scientifici tra reach e frequency e volta a ottenere ‘riflessi condizionati’ davanti agli scaffali dei supermercati. Un approccio che ha funzionato bene negli anni Sessanta e Settanta per i prodotti di largo consumo, favorito in parte anche dal bisogno dei/delle responsabili acquisti di entrare nella modernità facendo la spesa nei super e negli iper, e adottando stili di consumo ‘all’americana’. Un fascino, quello del mondo del largo consumo, al quale forse oggi sono sensibili solo, e paradossalmente, i segmenti di popolazione di recente immigrazione, per i quali rappresenta ancora un traguardo da raggiungere. Negli Stati Uniti, per esempio, gli ispanici stanno trainando la crescita di molte categorie merceologiche, così come i media a loro dedicati spingono gli investimenti pubblicitari. E, d’altronde, non è un caso che le grandi aziende multinazionali abbiano spostato la loro attenzione, e forse anche buona parte dei loro budget di marketing, proprio nei paesi che stanno vivendo una fase di rapido sviluppo. Da noi, intanto, all’effetto di ‘routine’ dell’acquisto di prodotti alimentari, per la cura della persona e quella della casa, si somma la minor capacità d’attrazione di alcuni formati distributivi, l’ipermercato in particolare, che vive da tempo su un’offerta schizofrenica, con la parte ‘grocery’ nobilitata da un vasto assortimento di grandi marche, e quella ‘non food’ ‘unbranded’ in stile discount o mercatone, e rivolta all’apparenza a un pubblico del tutto diverso.

Gli esperti di marketing delle aziende, letti gli effetti della rivoluzione in corso, sono oggi impegnati nella sfida di raggiungere il proprio pubblico sui mezzi dove spende quote crescenti del proprio tempo, anche se faticano ad adattare il proprio modo di comunicare nei confronti di uno spettatore che non è più passivo davanti a uno schermo, ma naviga a proprio piacimento e interagisce in continuazione con altre persone intente a fare lo stesso, e a inventarsi esse stesse editori di contenuti. Comportamenti traslati anche nell’utilizzo dei mezzi così detti classici, vuoi attraverso il recente fenomeno del ‘multi screen’, ovvero della fruizione contemporanea di tv, smartphone e tablet, ma anche di uno zapping tradizionale, favorito dall’offerta sempre più ampia da parte delle televisioni satellitari, via cavo e, da noi, dal digitale terrestre. Per non parlare del fenomeno dell’on demand o della visione differita.

Modalità che condizionano l’attenzione dell’agognato target, se non si elaborano contenuti di suo interesse, da cucirgli addosso. Il che fa parte del bagaglio culturale di chi si occupa di CRM e di forme di comunicazione mirate, ma anche di chi è bravo ad elaborare i contenuti: i giornalisti della carta stampata, le radio, le televisioni.

Deve sperare allora il mondo della comunicazione che l’inversione di tendenza dei principali indicatori economici sia imminente, e che non sia vero che le aziende multinazionali hanno relegato ormai l’Italia all’interno delle loro strategie di sviluppo a un ruolo di ‘mantenimento’ e ‘mungitura’, tagliando in modo drastico gl’investimenti di marketing.

Fatte salve tali premesse, gli investitori dovranno comunque affrontare alcune criticità:

  1. Disporre della capacità di selezione con senso critico e responsabile player vecchi e nuovi tra quelli affidabili, in un mercato frammentato da iperspecialisti, che parlano spesso uno slang tutto loro e mancano di una visione d’insieme delle strategie di comunicazione.
  2. Non cedere alla tentazione di abbandonare del tutto l’offline, dove soprattutto televisione e radio mostrano ancora una grande capacità di attrarre pubblico, talvolta diverso da quello digitale, talvolta lo stesso in momenti diversi della giornata.
  3. Bilanciare la composizione anagrafica dei componenti dei reparti marketing, in funzione dei prodotti e servizi da promuovere e del reale mercato di riferimento. Non bisogna sottovalutare l’impatto di social media, blogger, smartphone e tablet ma nemmeno attribuire loro potenzialità che non hanno su alcune fasce d’età, ancora molto importanti per potere d’acquisto e consumi.
  4. Individuare KPI confrontabili tra di loro per misurare in modo oggettivo il ritorno degli investimenti su ciascun mezzo di comunicazione, in relazione agli obiettivi della singola campagna.

Insomma, gli inserzionisti devono essere consapevoli che lo scenario futuro dei media dipende da loro, dal ritrovato coraggio d’investire, dalla capacità di comprendere l’evoluzione dei comportamenti del pubblico e di stimolare i player vecchi e nuovi del  mondo della comunicazione. Molti di questi, afflitti da problemi di obesità e scarsa flessibilità, non possono che aver tratto giovamento da un po’ di dieta, eppure oggi rischiano di sparire definitivamente, insieme al grande patrimonio di cultura e professionalità che rappresentano, se perdurerà la situazione di ‘denutrizione’ ormai cronica degli ultimi anni!