All’insegna dello zero virgola
l'opinione di
La croce della legge finanziaria ci tocca. Come commentatori, attori della business community e cittadini. Poiché da quando esce il primo testo dal consiglio dei ministri a quando viene approvata la legge, il tempo si dilata e i contenuti mutano significativamente, è davvero noioso occuparsi dei dettagli in corso d’opera (a meno di non sviluppare azione di pressione per orientarne importanti modifiche).
Detto francamente, per quanto riguarda il mondo della produzione e distribuzione di beni e servizi per il consumo, non si possono neppure ipotizzare azioni di correzione. La politica economica si orienta, con questa legge finanziaria, a una maggiore pressione fiscale – ma non si sa di quanto perché gli enti locali hanno alcuni mesi per adeguare le aliquote dei tributi di loro competenza – in presenza di spesa pubblica non decrescente. L’idea del governo pare quella di riprovare l’operazione che riuscì negli anni Novanta: maggiore gettito attraverso maggiore pressione in nome di obiettivi di grande respiro, senza provocare una riduzione dei consumi delle famiglie e quindi un inceppamento del sistema nel complesso. Oltre ai protagonisti, anche il linguaggio è il medesimo: invocazione nei confronti della platea dei cittadini-contribuenti a credere nel progetto; anche oggi si parla, già prima che la manovra sia definita, di restituire il maggior gettito in futuro. Allora il progetto si chiamava Europa, oggi si chiama rimettere in moto l’economia lungo tre grandi aree d’intervento: risanamento, sviluppo, equità. Concreto e affascinante quello, vaghi ed equivoci questi. Allora venivamo da 15 anni di crescita, in parte drogata attraverso un debito crescente, mentre oggi il tasso di sviluppo è quasi un terzo: dal 1975 al 1990 il Pil italiano è cresciuto di quasi il 58% mentre nei quindici anni che vanno dal 1990 al 2005 è cresciuto di appena il 20.9%, sempre in termini reali. Quindi, forse, non c’è lo spazio per ulteriori sacrifici mentre c’è sicuramente un difetto di motivazione. Allora si poteva e si doveva ragionare sui saldi perché la moneta unica era un target definito e rilevante: si doveva ridurre drasticamente l’indebitamento netto (tutte le entrate meno tutte le spese comprensive degli interessi sul debito), perché valeva quasi il 12% del Pil nel 1991. Oggi i cittadini sono maturi per andare oltre la questione del 4% di quel saldo da riportare sotto il 3% del Pil. È necessario porsi la questione della composizione dei saldi di bilancio: cosa ne è di 273 miliardi di spesa pubblica per consumi intermedi, salari e stipendi (nel 2005), senza contare pensioni e sanità e le altre spese in conto capitale? Non è rilevante che tale spesa in percentuale del Pil scenda - si spera - di un punto in cinque o sette anni (dal 19 al 18% a legislazione vigente). È rilevante sapere perché cresce in valore assoluto (fino a oltre 310 miliardi nel 2011). Se si capisse questo, sarebbe più semplice comprendere perché è necessario pagare più imposte se si ha un reddito superiore a ben 40mila euro lordi annui. La nostra spesa pubblica è compatibile con uno sviluppo del Pil potenziale oltre l’1-1.5%? Oppure determina una crescita solo ridottissima e senza qualità? Forse che da questa spesa pubblica passa già una sorta di oscura e perversa ridistribuzione di risorse da chi produce a chi garantisce larga parte del consenso alla coalizione vincente o che spera di rifarsi alla prossima tornata elettorale? È questa l’equità che vogliamo e meritiamo?
Per quanto detto e per molto altro, penso sia da mettere in conto una sostanziale revisione al ribasso del tasso di crescita del reddito disponibile e dei consumi delle famiglie (1.3%) a partire dal 2007. Quel barlume di ripresa che stava manifestandosi potrebbe perdersi e aprire così un altro lungo periodo all’insegna dello zero virgola.