distribuzione marketing

La nuova grammatica del retail omnichannel

Dall’ultima edizione di Ki Best il messaggio è chiaro. La sfida per il retail è l’omniexperience: la capacità di offrire ai clienti una esperienza d’acquisto fluida e replicabile nei diversi canali. Ma occorre rivedere modelli e organizzazioni

Gli incontri di KiKi Lab sono sempre una piattaforma di conoscenza dell’evoluzione del retail internazionale, grazie alla consistente e costante attività di monitoraggio delle esperienze che avvengono nei cinque continenti, frutto anche della collaborazione con la rete di consulenti internazionali dell’Ebeltoft Group. Così è stato anche per l’ultima edizione di Ki Best che di norma tende a raggruppare casi e chiavi per il successo nel retail.

La nuova normalità del retail

In questa edizione si è parlato di coinvolgimento, omniexperience, smart shopping, responsabilità e personalizzazione. Il quadro che emerge dai casi enunciati in forma di pillole da Fabrizio Valente, fondatore e ceo di Kiki Lab, è quello di un retail nel quale alcune pratiche, che potevano essere di frontiera solo qualche anno fa, sono ormai entrate nella pratica o nella “nuova normalità” del retail nel suo confronto quotidiano con i consumatori. Il ritiro dei capi usati per il loro riciclo (& Other Stories, Uniqlo), per esempio, o l’acquisto online e il ritiro nel punto vendita o la consegna nello stesso giorno dell’acquisto (Nordstrom, Holland & Barrett, Asda in collaborazione con altri retailer, Target) o ancora la personalizzazione di capi di abbigliamento (Nike, American Eagle) sono alcuni degli esempi citati che stanno, un po’ alla volta, per diventare quasi dei prerequisiti per chi fa retail.

«Oggi il commercio opera in un contesto economico e geopolitico fragile e complesso. Occorre pertanto essere agili e con la consapevolezza che i negozi non sono morti e non moriranno. Sono quelli noiosi, inutili, che non fanno la differenza a essere morti», commenta Valente, che aggiunge: «Non dobbiamo poi ignorare gli scenari digitali. Si stima che nel 2020 (l’anno prossimo!) il 70% del web browsing sarà vocale, che nel 2025 il mercato IoT (Internet of Things) varrà tra i 410 e i 1.200 miliardi di dollari e che nel 2030 saranno in uso oltre 30 miliardi di dispositivi abilitati. La domanda è come il retail si pone in questo scenario sapendo che le persone sono molto più pronte ad affrontarlo: il 57% degli individui è già pronto per il browsing vocale, per esempio. Un altro aspetto riguarda il social commerce: Instagram non è più solo un canale di infocommerce, ma di stimolo agli acquisti d’impulso. Bisognerà tenerne conto».

Coinvolgere il cliente

Resta il fatto che il vero must per i retailer è l’omniexperience, termine che sta sostituendo sempre più quello di omnicanalità perché, come ha detto Valente, i clienti non sanno che cosa siano i canali, sono più interessati a un’esperienza fluida. «Parliamo troppo spesso di un mondo che non esiste più se non nella testa degli operatori di mercato», è la riflessione di Giuseppe Cunetta, chief marketing e digital officer Media World Italia. «Il cliente si muove in modo disinibito e a seconda delle categorie merceologiche e delle situazioni cambia comportamento». E per i retailer occorre dare risposte nuove, in un processo di metamorfosi verso una relazione più stretta con i propri clienti. «Non solo. Così come il cliente – aggiunge Valente – non si pone il problema dei canali, lo stesso deve avvenire nelle organizzazioni. Bisogna abbattere i silos tra le varie divisioni aziendali, per evitare che, come è già successo, il test è stato molto positivo, ma il progetto è stato bloccato perché, finanziato dal digital, aumentava le vendite nei negozi».

La conferma arriva anche dall’ultima edizione della ricerca Connected Shoppers di Salesforce Research sulla base di 10 mila consumatori in oltre 20 paesi (503 in Italia): le aspettative di coinvolgimento dei clienti sono molto lontane dalle meccaniche esperienze transazionali e standardizzate che fino a poco tempo fa erano la norma. I clienti chiedono un coinvolgimento personalizzato, contestuale, specifico per ogni punto di contatto: alcune aziende riescono già a soddisfarli. Il 73% dei clienti afferma che una esperienza qualitativamente eccellente è sufficiente a innalzare le loro aspettative anche verso le altre aziende. Così, sempre secondo la ricerca Salesforce il 90% dei consumatori italiani acquista da una combinazione di retailer, brand e marketplace online. Ciò spesso dipende da chi è capace di coinvolgere fornendo un servizio iper-personalizzato anche attraverso modelli direct-to-consumer anziché attendere l’intermediazione del retailer. Ma i punti vendita fisici rimangono comunque più importanti che mai e vedono evolvere il proprio ruolo in hub di scoperta ed esperienza dei prodotti. Le motivazioni principali che spingono per esempio i consumatori italiani a fare acquisti in negozio sono la possibilità di toccare e sentire la merce, ottenere subito i prodotti desiderati e usufruire di sconti spendibili nel punto vendita. Il report di Salesforce evidenzia inoltre che il 56% dei consumatori italiani dice di aver acquistato un prodotto online scegliendo di ritirarlo in negozio. E il 90% delle vendite si svolgono ancora nel retail fisico.

«In cinque anni l’influenza dei touch point digitali è passata dal 13% al 66%», sottolinea Giuseppe Pozzo, omnichannel director AW Lab, insegna specializzata nello sport e nel lifestyle del gruppo Bata. «E bisogna considerare che il cliente omnichannel acquista 3 volte in più di quello tradizionale e cinque volte in più del cliente e-commerce. La chiave di lettura di questo consumatore è quindi il CRM che consente di quantificarne i diversi comportamenti, di individuare che cosa si attende, quanto velocemente cambia abitudini, come guidarlo e influenzarlo.

Contestualmente deve cambiare la struttura del retail nelle sue componenti: da punto di vendita passa a punto di esperienza (ma deve cambiare la struttura del conto economico), negozio non più destinazione esclusiva del consumatore, flussi di prodotto non più univoci da monitorare e quantificare, un servizio clienti aggiornato: insomma, un modello di business omnichannel. «Non può sfuggire – continua Pozzo – l’impatto che una visione di questo tipo ha per esempio sul real estate. Per esempio lo stock in negozio subisce una drastica riduzione, perché se il cliente è omnichannel, non necessariamente tutto deve essere disponibile nel punto di vendita fisico e si riduce lo spazio del magazzino. Cambia quindi l’approccio con il real estate. E in un nuovo modello di questo tipo, l’obiettivo è fare business per l’azienda: il punto vendita partecipa a questo processo senza essere necessariamente un punto di profitto».

Una metamorfosi continua

In questo contesto l’accento sui servizi è molto forte: così, per esempio Whole Foods Market ha inserito la lavorazione e il taglio delle verdure, Asda popone di cucinare secondo la ricetta richiesta il pesce fresco acquistato, Best Buy ha introdotto la riparazione dello schermo dello smartphone in poche ore e Tesco Extra enfatizza la collaborazione con Jamie Oliver affiancando le ricette con le attrezzature che servono per realizzarle.

È una metamorfosi continua quella che deve affrontare il retail alla ricerca costante di una distintività che lo faccia scegliere. Così, per esempio Pittarosso è passato dall’idea del grande contenitore di “scarpe a più non posso” a un posizionamento più fashion che invita a entrare nell’universo Pittarosso. «L’idea alla base – spiega il ceo dell’azienda Marcello Pace – è quella della flessibilità, che, condivisa da tutte le divisioni dell’azienda, si traduce nel punto vendita in una struttura che consente di cambiare rapidamente l’aspetto del negozio, coniugata con l’ossessione della ricerca dell’eccezionalità dell’esperienza da offrire ai clienti».

Anche Todis ha intrapreso da qualche anno un percorso di trasformazione da discount a supermercato a marca privata. «Un’alternativa ibrida al discount e al supermercato – spiega Francesco Iuculiano, direttore commerciale – con una forte incidenza dei freschi (42%), della marca del distributore (66% delle vendite), sull’ambientazione, sul packaging, sulla sostenibilità e sulla prossimità, intesa come capacità di essere vicini ai consumatori con l’apertura h24, la spesa a casa, la connessione con il territorio. I risultati non sono mancati: in cinque anni la rete è passata da 187 a 242 punti vendita, il sell out da 533 a 788 milioni di euro».

A cura di Fabrizio Gomarasca @gomafab