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Imparare a vendere i cibi del futuro

Di fronte alla disponibilità globale di prodotti, una soluzione percorribile per il retail, se non intraprende la strada del discount, è quella della specializzazione con profondità e ampiezza di assortimento, mettendo il cliente in condizione di provare e testare i nuovi prodotti, provandoli.

Dalle lunghe frequentazioni con il retail internazionale, statunitense in particolare, Daniele Tirelli, presidente di Retail Institute ha maturato una convinzione che può sintetizzarsi così: per avere successo la distribuzione alimentare ha una strada maestra d percorrere, quella del continuo stimolo della domanda.

Come? Offrendo innovazione ai massimi livelli: di prodotto, espandendo l’offerta, e di concept, affiancando la possibilità di sperimentare i nuovi prodotti e i nuovi gusti nel momento i cui il consumatore potenziale cliente viene in contatto con il prodotto sullo scaffale o nella vetrina del reparto freschi.

E per dar forza a questo suo concetto, in un incontro di Retail Plaza a Tuttofood, ha coniato un neologismo di una certa efficacia – food evolvation, crasi tra evolution e innovation – frutto di un dotto ragionamento in cui trovano spazio Darwin e Lamarck, l’epigenetica e la speciazione, cioè il processo di creazione di una nuova specie vegetale o animale, l’espansione delle referenze e l’esperienza nel punto vendita.

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Innovazione e biodiversità

Così come nelle scienze naturali  si verificano l’aumento del numero di specie e l’aumento della complessità di molte di queste rispetto alle prime forme di vita, anche nel comparto alimentare vengono enfatizzati questi due concetti, da cui, appunto il termine ‘evolvation’.

Questa, per Tirelli, è caratterizzata da alcuni fattori primari, come la crescita degli scambi commerciali su scala planetaria che accorciano le distanze tra i vari Paesi, in particolare con l’e-commerce globale (vedi Amazon e AliBaba); il progresso della logistica, visto che le merci vanno spostate con tuti i vincoli e i condizionamenti del caso; lo sviluppo della genetica e delle tecniche di trasformazione e di conservazione che hanno innescato, per esempio, cambiamenti importanti nell’ortofrutta con la selezione di varietà tagliate sul segmento di consumatori cui sono destinati e infine la fusione delle culture alimentari, «Anche se gli stereotipi sono sempre in agguato e spesso si chiama innovazione quello che in altri paesi è tradizione», afferma Tirelli. Gli esempi sono innumerevoli: dalle bevande con semi di basilico antiossidanti, che a noi appaiono una innovazione sull’onda del salutiamo, ma in alcuni paesi, come l’Iran o in Oriente, sono normalmente utilizzati. Un prodotto che riunisce in sé tutti questi fattori è l’uva Sugrasixteen, una varietà sviluppata nel 1988 che giunge a maturazione praticamene tutto l’anno alle diverse latitudini.

L’altra faccia della medaglia di questa macrotendenza è la riduzione del numero di varietà che si trovano nei supermercati. «Nel mondo ci sono circa 750 varietà diverse di banane, ma quella che si trova dovunque è la banana Cavendish, più bella e più resistente. Stiamo perdendo un enorme patrimonio di biodiversità», annota Gregoire Kaufman, commercial e marketing director Carrefour Italia.

Piccole nicchie e consumo esperienziale

Proseguendo nel suo ragionamento, Tirelli parla di frattalizzazione di ogni categoria di prodotto. Nelle creme spalmabili, per esempio c’è un’esplosione di gusti, spesso mescolati tra di loro: mandorle, noci, pistacchio, pera e mela, nocciole-cioccolato-cocco, arachidi caramello, e così via. Il kefir è un altro esempio. Di fronte all’aumento del numero delle specie (referenze), dei me-too, cambia anche la prospettiva dei retailer: con la disponibilità di milioni di prodotti filtrati dal trade, la sfida è gestire tante piccole nicchie fatte non più da grandi marche sostenute dall’advertising, ma da piccoli marchi specialistici.

Non a caso negli Stato Uniti ci sono molti casi di insegne specialistiche. Nelle bevande, come  Binnys  Beverage Depot nell’area di Chicago: 38 mila referenze tra birre (7858), vini (1500), spirits (5525). altri esempi citati sono Berkeley Bowl Marketplace con oltre mille sku di ortofrutta su 80 mila complessivi e Jungle Jim’s, fondato nel 1972, a Fairfield  (Ohio):180 mila sku in 28 mila metri quadrati di superficie che ha un’offerta di 1400 formaggi.

Esempi estremi, difficili da replicare in Italia, forse. Ma che fanno riflettere. Del resto il terreno è fertile anche nel Belpaese. «Secondo le analisi dell’Osservatorio Immagino di  GS1 Italy, sebbene un quarto dei prodotti analizzati faccia riferimento all’italianità e vi sia una tradizione molto radicata degli italiani sul cibo, alcuni segmenti della popolazione sono campioni nell’assaggio e nella prova di nuovi prodotti. Una curiosità che si estrinseca nel passaggio di una quantità di mode, molte delle quali arrivano, si diffondono e poi spariscono. Altre, invece, si strutturano e rimangono diventando dei trend che modificano gli stili di consumo», afferma Marco Cuppini, research & communication director GS1 Italy.

«Per raggiungere il fitness nella food evolvation – spiega Tirelli – l’azienda necessita di alcuni requisiti di base.

  • Deve diventare un’azienda “osmotica” capace di elaborare, assorbire e decodificare quanta più informazione possibili: il produttore per valutare le opportunità, ma soprattutto le minacce ”ambientali” dovute al soffocamento della crescita varietale, il retailer per calibrare continuamente la propria offerta e il proprio posizionamento.
  • Occorre anche determinare qual è livello di esperienza necessario alla “comprensione” del nuovo prodotto alimentare e alla sua “adozione” nelle abitudini di consumo, rapportare la complessità del prodotto e del suo contenuto informative all’economia dell’attenzione e privilegiare il canale distributivo più sinergico alle caratteristiche del prodotto.
  • Ancora deve fare un’attenta analisi del proprio dna per capire quale legittimazione ha il marchio per produrre una “speciazione” in una classe di prodotto diversa dalle sue o quale valore strategico ha prendere “a prestito” tecnologie altrui per ampliare il proprio portafoglio.
  • Infine non deve sottovalutare la valutazione del rischio.

La direzione – una delle direzioni – sembra essere tracciata. Di fronte agli esordi della globalizzazione commerciale e l’interscambio di popolazioni aumenterà l’apporto di elementi culturali rivitalizzanti gli stili di consumo alimentare. La disponibilità di sku, stock keeping unit, aumenterà dovunque, provocando una biforcazione fondamentale:

  1. La prima è la semplificazione dell’acquisto (drive, discount, warehouse).
  2. La seconda è la gestione della varietà crescente spingendo verso grandi superfici specializzate.

La vendita silenziosa degli attuali super e ipermercati funzionerà solo in condizioni sempre più restrittive a causa del meccanismo dell’attenzione nell’esperienza d’acquisto, che decresce all’aumentare del numero di prodotti proposti. «La risposta è – conclude Tirelli – nella distribuzione specializzata che diventerà luogo esperienziale, dove testare e consumare i prodotti prima dell’acquisto».

A cura di Fabrizio Gomarasca - @gomafab

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