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Gli artigiani hanno un futuro davanti

Si può avere successo anche rimanendo in settori tradizionali, anche se non si studia nelle università di prestigio o non si passano anni all’estero. Lo racconta un viaggio tra 30 under35 alla guida di imprese artigiane. Il segreto? Tanto lavoro e la capacità di capire in fretta la propria strada

Qualcuno ci salvi dai luoghi comuni, che sono tanti e che quando si parla di lavoro e imprese si ammantano di parole d’ordine lanciate anche delle cattedre universitarie più prestigiose. Abbiamo imparato, nell’ordine, che il piccolo è brutto, che la famiglia è nepotismo, che l’imprenditore è un evasore e che il manifatturiero è morto o destinato a finire nei Paesi occidentali. Non solo: abbiamo imparato che tra due giovani imprenditori, quello più bravo è quello che ha fatto tanta esperienza all’estero. Possibilmente in un’università prestigiosa seguita da un master. Che tra due giovani imprenditori, quello che è passato da una grande azienda o più di una vale immensamente di più di chi è rimasto nella provincia a fare un solo lavoro, magari in una sola impresa. Da una parte il futuro, dall’altra parte un residuato bellico, conservatore e pure un po’ di coccio. Tutti queste convinzioni, tuttavia, hanno l’aspetto di falsi miti. O quantomeno fanno a pugni, a volte proprio a ceffoni, con la realtà. A darcene una dimostrazione è un viaggio bello lungo, di 5.000 chilometri sulle strade di tutta Italia, che ha compiuto Marina Puricelli, docente di Fondamenti di Organizzazione alla Bocconi e alla Sda Bocconi, con l’aiuto del docente dell’Università di Aosta Paolo Preti. Ne è scaturito un libro dirompente, “Il futuro delle mani” (Egea, 2016, 170 pagine, 19.90 euro), dedicato alle storie di 30 artigiani under 35 alla guida di imprese e degli ingredienti alla base del loro successo, inspiegabile secondo le teorie più in voga.

Le storie sono state selezionate da Confartigianato e tra di queste non c’è neanche quella di un maker e solo un paio sono startup con componente digitale spinta. I ragazzi descritti, fabbricanti di gioielli, di scarpe, di bomboniere, perfino fabbri, sono persone normali. «Non ho incontrato dei fenomeni, nessuno era un bambino prodigio o un genio alla Steve Jobs», dice la docente. Non tutti sono laureati, anzi, molti non finiscono neanche gli istituti tecnici o professionali. Ben pochi, tra i laureati, hanno frequentato la scuola “giusta” e l’università di grido. Hanno però saputo trarre il meglio dalle loro esperienze, anche solo sapendo individuare un maestro nel mare di docenti e usando la burocrazia degli atenei come una palestra per quello che li avrebbe attesi.

A questo punto si può obiettare che questa impostazione mette in discussione il ruolo della scuola e dell’università come ascensore sociale: non tutti hanno la fortuna di essere figli di imprenditori e la scuola è il modo per offrire a tutti una via d’uscita da una condizione di marginalità. L’intento dell’autrice sembra però diverso, quello di demitizzare l’idea che un percorso di studi assicuri di per sé il successo nell’attività imprenditoriale.

L’ingrediente segreto sembra un altro: tutte le persone sentite sono dedite in modo quasi sacrale alla propria aziendina. È la regola delle 10mila ore, inventata da K. Anders Ericsson e ripresa dalla Puricelli: per conoscere un settore, specie quelli con forte complessità tecnica ed esperienziale, come le scarpe di alta qualità, non bastano i pochi mesi necessari per mettere su un’app. Alle aziende servono anni, una crescita lenta e con radici piantate. È la via italiana alle startup, lontana anni luce dalla logica della crescita a ritmi elevatissimi allo scopo di realizzare una exit (cioè di vendere) tipica appunto delle startup californiane.

Ma anche alle persone servono anni, necessari per assimilare tutte le sfumature e i meccanismi del caso. Poi scatta la capacità di innovare, in modo sostanziale. «È il mondo della miniera contrapposto a quello dei surfisti», spiega Puricelli, dove i minatori si prendono una bella rivincita. «Ci raccontano che bisogna esporsi a più esperienze possibili, ma l’esposizione superficiale e mordi e fuggi a mille stimoli rischia di disorientarli». Le storie del libro sono piene di racconti di anni infantili passati nei capannoni o negli scantinati sotto casa. Si comincia con i pomeriggi a giocare tra gli attrezzi, poi con i lavoretti estivi, poi con il part-time. Spesso ci sono uscite nel vasto mondo, seguite da un “richiamo della foresta” che arriva in genere presto: i giovani artigiani incontrati dai due docenti a 30 anni si ritrovano con 10 o 15 anni di esperienza alle spalle. «Sono persone compiute», li definisce la Puricelli. Molto più compiute di chi è destinato a essere un “qualcosista” (copyright Giovanni De Rita) a 27-28 anni dopo laurea, master e neanche un giorno in azienda.

A cura di Fabrizio Patti

Foto di Marco Cuppini - @cupmar