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La finanza è amica dell’agricoltura e lo sarà sempre di più

Parla Federico Vecchioni, amministratore delegato di Bonifiche Ferraresi, 5.500 ettari appena comprati dalla Banca d’Italia: «Con la tecnologia e l’integrazione con la trasformazione, l’agricoltura torna a essere redditizia. La finanza lo ha capito»

C’erano una volta 5.500 ettari di coltivazioni, nelle province di Ferrara e di Arezzo, di proprietà della Banca d’Italia. Parliamo di un anno fa, non dell’Ottocento. Le Bonifiche Ferraresi erano un residuo di campagna pubblica, che la Banca d’Italia aveva ereditato dall’Iri, la quale a sua volta aveva rilevato negli anni Trenta vasti terreni ottenuti dalle bonifiche (si arrivo a quasi 30mila ettari). Una storia di un certo fascino che ha origine in Inghilterra nel 1871 e che ha visto anche una quotazione in Borsa nel lontano 1947. Da un anno il 60% della quota è passato a una cordata di imprenditori e finanzieri, che vanno dalla Fondazione Cariplo alla Per Spa di Carlo De Benedetti, da Sergio Dompé alla Aurelia spa, dall’Inalca dei Cremonini alla famiglia Gavio. Amministratore delegato è Federico Vecchioni, poco più che 40enne ex presidente nazionale di Confagricoltura, poi passato a Coldiretti. Vecchioni sabato 9 aprile è stato ospite di Salotto Sarzana, kermesse che si tiene nella cittadina ligure e di cui Linkiesta è media partner. Lo abbiamo sentito alla vigilia dell’incontro.

Era piuttosto strana una società agricola posseduta dalla Banca d’Italia. In che condizioni l’avete trovata un anno fa?

Era un’azienda agricola tradizionale, che produceva solo commodity. C’era però una grande qualità dei prodotti: per questo quando la Banca d’Italia ha annunciato la vendita delle quote, abbiamo pensato che fosse indispensabile mantenere un asset che è un patrimonio del Paese.

Per farne cosa?

bbiamo un piano industriale che cambia radicalmente Bonifiche Ferraresi. Da semplice azienda agricola diventa un’impresa verticalizzata di produzione agricola e di trasformazione per produrre beni di consumo. Cambieranno sia le modalità di produzione, che sarà più meccanizzata, sia i tipi di prodotti: non più solo cereali, pere abate e mele Fuji, ma anche ortaggi, frutta, coltivazioni orticole e una filiera di erbe officinali. Il piano industriale dopo dieci mesi sta già portando risultati positivi.

Quanti sono i dipendenti e come si evolveranno in questa trasformazione?

Oggi ci sono circa 40 dipendenti e 120 stagionali. Certamente la trasformazione creerà l’esigenza di avere più persone.

Lei ha parlato della necessità di fare un’azienda hi-tech. In questo momento si parla di big data applicati alle coltivazioni, di satelliti per aumentare la precisione degli interventi, di nutriceutica e naturalmente di Ogm, di cui però in Italia è vietata la coltivazione. Cos’è per voi l’agricoltura hi-tech?

Per noi è in primis agricoltura di precisione. Siamo partiti con la georeferenziazione di tutti i 5.500 ettari. È una tecnica, frutto della tecnologia, che permette di avere una mappatura di tutte le coltivazioni e di conseguenza di usare in modo efficiente sementi, agrofarmaci e acqua. È un modo per rendere l’agricoltura sostenibile nel senso più concreto del termine. Consente di distribuire non più in modo approssimativo ma in modo preciso tutti gli input, a partire dall’acqua.

Che risparmi contate di ottenere?

Tutta la pratica di georeferenziazione consente un beneficio economico del 25% tra risparmio e ottimizzazione delle rese, il che è un fattore rilevante, soprattutto considerando l’estensione delle terre.

Le Bonifiche Ferraresi sono estese su oltre 5mila ettari. Cosa risponde se le dicono che è un latifondo?

Che è una definizione impropria, che non si può applicare alle Bonifiche Ferraresi. I latifondi sono stati storicamente terreni improduttivi, le bonifiche sono altamente produttive.

La situazione delle aziende agricole ultimamente è un po’ mitizzata. Lo stesso ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina, di recente al convegno Fare Meglio Italiano organizzato da GS1 Italy ha detto: «Sono felice che ci sia il ritorno dei giovani in agricoltura, ma attenzione a dire che fare l’agricoltore è figo. Anche se hanno mediamente un’ottima resa per ettaro, le aziende italiane sono molto deboli». Anche gli allevatori non se la passano benissimo, soprattutto quelli del settore del latte.

quaderno_faremeglioitaliano.pngLeggi l'opinione integrale del ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina sul quaderno di Fare meglio Italiano

Cosa devono fare le aziende per uscire da questa situazione?

Devono fare in molta innovazione e molto lavoro sull’organizzazione aziendale. Devono passare dalla qualità dichiarata alla qualità provata. Anche il fattore dimensionale è determinante: la qualità e le certificazioni non sono sufficienti a rendere un prodotto forte, se non sono accompagnate da un forte lavoro sulla distribuzione. Il vino, in questo senso, è un esempio.

I rapporti tra produttori agricoli, trasformatori e distributori sono ancora tesi, nonostante le buone intenzioni. Cambierà la situazione?

Oggi rispetto a qualche anno fa questi rapporti trovano una maggiore integrazione e laddove la trovano hanno accesso a grandi opportunità economiche. Serve però un equilibrio tra i tre fattori, altrimenti uno dei tre finisce per esserne escluso.

A cura di Fabrizo Patti