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Per un’economia più consapevole (di sé)

Come cambieranno le regole del gioco competitivo per il settore del largo consumo nei prossimi decenni? E quali gli interventi da mettere subito in campo per gestire queste trasformazioni? Sono i due principali temi al centro dell’indagine promossa da SCS Consulting, società di consulenza strategica con una lunga esperienza in progetti d’innovazione nel campo della sostenibilità con focus nel mondo Retail e FMCG, in collaborazione con GS1 Italy | Indicod-Ecr e presentata presso Il Sole 24 ore nel corso del Retail Summit. Nessuna pretesa velleitaria di prevedere il futuro con la sfera di cristallo, ma l’ambizione di capire quali scenari a lungo termine hanno in mente i grandi timonieri del sistema della produzione e della distribuzione di massa italiana quando delineano l’orizzonte verso cui traghettare le loro imprese.

L’interrogativo di fondo, che ha animato questo confronto, è la ricerca di come debba essere “conscious” la nostra economia per essere definita tale. Il primo passo è certamente riconoscere che il suo buon funzionamento dipende da dimensioni che vanno oltre il confine della semplice produzione, vendita e profitto. Un sistema economico convive in un contesto sociale che gli da respiro ed è radicato in un ambiente che lo alimenta. Imprescindibile dunque porsi il problema se quel gioco di produzione e scambi stia creando valore per tutti i soggetti coinvolti e se stia facendo un uso intelligente delle risorse. Un’economia è dunque consapevole se riconosce il suo legame con altre dimensioni e se, nello stesso modo, è in grado di guardare in prospettiva per valutare le implicazioni delle sue scelte nel medio e lungo periodo, senza appiattirsi su una miope gestione del presente.

Con questo spirito 17 top manager di imprese leader in Italia nel settore del largo consumo si sono confrontati sui macrofenomeni che influenzeranno il business negli anni a venire individuati da SCS Consulting. Ne esce un affresco delle grandi trasformazioni che stanno mutando il nostro mondo e, con esso, i nostri sistemi produttivi e distributivi.

L’industria FMCG e i retailer si attendono un futuro segnato innanzitutto dalla scarsità di risorse naturali per effetto dei trend demografici e della diffusione dei modelli di consumo occidentali nei paesi emergenti. Il fenomeno che ci si attende avere l’impatto più forte sulle attività è il progressivo esaurimento del petrolio. Inevitabile l’aumento dei costi della logistica e della bolletta energetica. Viene avvertito altrettanto pressante il tema della futura insufficienza di terra arabile, di risorse idriche e di materie prime con conseguenti effetti sui prezzi, sempre più volatili, delle principali commodity e sulla loro costante disponibilità a livelli quantitativi e qualitativi adeguati. Preoccupazioni fondate se si osservano le stime sulla crescita della popolazione mondiale che nel 2050 raggiungerà i 9 miliardi. Occorrerà fare fronte a un incremento dell’80% della domanda di energia, al raddoppio del fabbisogno mondiale di acqua e a un’impennata del 70% della domanda di cibo rispetto ai livelli attuali. Non a caso diverse multinazionali come Nestlé, Kraft e Mars stanno lavorando per consolidare le relazioni con la filiera di fornitura, risalendo la propria supply-chain fino all’origine, in ottica di sostengo allo sviluppo delle comunità da cui provengono le materie prime processate.

Viene riconosciuto un peso considerevole anche a due fenomeni, già in atto in questi anni, che stanno ridisegnando gli assetti economici mondiali, ma che esplicheranno pienamente i loro effetti nei prossimi decenni. Parliamo, da un lato, della tendenziale contrazione dei redditi nei mercati maturi (3° fenomeno per impatto sul business), accompagnata a una loro polarizzazione, in futuro probabilmente più marcata per effetto della riduzione delle prestazioni pensionistiche. Dall’altro della crescita della quota di mercato dei paesi emergenti (al 6° posto). È sufficiente osservare l’andamento del prodotto interno lordo in questi ultimi anni per comprende la velocità di questi cambiamenti: fra il 2007 e il 2011 a fronte di una crescita dell’economia cinese del 44% e di quella indiana del 34 %, corrisponde una contrazione del 4,5% del pil italiano. La classe media di domani non avrà più casa negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone, ma si sarà spostata in Cina, India, Brasile, Russia: secondo le stime della Banca Mondiale nel 2030 la middle class globale si concentrerà per il 93% in quei paesi (che ancora per poco chiameremo) emergenti. Avrà dunque culture, preferenze e abitudini di consumo nettamente diverse da quelle che finora le industrie e i retailer hanno cercato di interpretare e soddisfare. Da qui l’esigenza di consolidare le capacità di proiezione all’estero, di sviluppare nuovi prodotti e di ripensare le strategie di vendita.

Nuovi i clienti nei paesi emergenti, ma profondamente diverso sarà anche il consumatore nei mercati maturi. I manager individuano infatti come quarto fenomeno per capacità d’influenzare il business nei prossimi decenni l’invecchiamento della popolazione italiana. Occorrerà dunque rivedere l’assortimento di prodotti e servizi, i canali di vendita ma anche l’organizzazione interna nelle aziende. Mediamente più anziana sarà anche la forza lavoro, perciò diventeranno asset competitivi determinanti la capacità di valorizzare e integrare i lavoratori senior e l’ideazione di politiche efficaci di conciliazione vita-lavoro.

Dei fenomeni portati all’attenzione dei manager intervistati quelli che nella classifica occupano una posizione mediana sono legati all’emergere di una società più consapevole e informata per la quale saranno valori centrali la trasparenza e la sobrietà. Pensiamo solo all’esplosione di blog che fra il 2007 e il 2011 sono quasi quadruplicati arrivando a 181 milioni. Un consumatore, un lavoratore o un fornitore con un accesso alle informazioni sempre più libero, immediato ed economico (5° posto nel ranking dei fenomeni di maggiore rilievo) per le imprese non significherà solo dover render conto delle proprie scelte a varie categorie di stakeholder, ma anche avere la possibilità di coinvolgerli nell’ideazione e nello sviluppo dell’offerta commerciale (7° fenomeno più impattante).

È interessante notare come al tema dei cambiamenti climatici venga riconosciuta una capacità d’influenzare il settore del largo consumo più limitata: preoccupa sicuramente la rilocalizzazione delle produzioni agricole e dei siti produttivi per l’effetto dei cambiamenti climatici (8° posto), ma nettamente meno l’introduzione di nuovi e sempre più stringenti accordi per il contenimento delle emissioni di gas a effetto serra (12° posto). La corretta gestione ambientale parrebbe una sfida ormai interiorizzata e presidiata dall’industria dei beni di largo consumo.

Quali strumenti saranno più utili per gestire questi scenari? Le risorse umane interne si confermano il patrimonio più prezioso per il management: in cima alla priorità strategiche c’è la creazione di un ambiente di lavoro più sicuro, inclusivo e motivante dove siano valorizzati tutti i talenti e le diversità. Tema, quello delle risorse umane, che torna anche al terzo posto nell’agenda degli interventi non prorogabili nella forma della ricerca di un migliore bilanciamento fra vita e lavoro. Fra le linee d’azione più importanti, al secondo posto, un classico evergreen: recuperare produttività.

Si lavorerà dunque molto all’interno delle imprese sull’organizzazione aziendale e in seconda battuta si interverrà a monte, nella catena di fornitura, per garantire una più equa distribuzione del valore nella supply-chain. Sicuramente molto importante, ma meno urgente cercare a valle, nei propri clienti, una sponda per migliorare la sostenibilità del proprio business. Si pensa di mettere in campo azioni di sensibilizzazione dei clienti, orientando l’offerta verso prodotti green (5° ambito d’intervento) oppure di coinvolgere gli stakeholder esterni per sviluppare insieme soluzioni capaci di potenziare le ricadute positive delle proprie attività sui territori e nelle comunità in cui si opera (6° filone d’azione). Scarsa invece la disponibilità a collaborare con i concorrenti in ottica precompetitiva su temi quali l’elaborazione di un linguaggio comune per misurare e comunicare le performance socio-ambientali delle imprese. Ancor meno inclini a intervenire insieme ai competitor nella supply-chain per migliorare le prestazioni ambientali e sociali dei fornitori.

I risultati emersi da questo confronto con i protagonisti dell’industria di largo consumo sono certamente di notevole interesse. Ma il vero valore dell’indagine sta nell’abituarci a inserire il nostro business nella cornice più ampia del mondo che abitiamo e continueremo a vivere nei prossimi decenni. Possiamo essere attori di un’economia consapevole se riconosciamo le connessioni fra le imprese e ciò che esiste fuori dagli stabilimenti e oltre le porte dei nostri punti vendita, cercando sempre di valutare le implicazioni delle nostre scelte a medio e lungo termine. Una pratica che potrà anche trarre impulso da un’istanza etica, ma in sostanza non molto diversa da ciò che si richiede a chi vuole sviluppare un business solido che dia risultati nel tempo. La conscious economy è in definitiva “good business”.

A cura di Giulia Balugani, Alessandro Porta, Francesco Fumelli – SCS Consulting


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