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Convenienti e affidabili. Così i consumatori vedono le private label

Pane, pasta e biscotti con acqua minerale, yogurt e latticini. In queste categorie di prodotti la store brand ha un migliore rapporto qualità/prezzo delle marche industriali per i consumatori intervistati nel corso della ricerca promossa da Popai Italia dal titolo “Marche private italiane: promesse disattese e livelli di eccellenza”.

Non solo. Tra gli intervistati (un panel di 1200 individui rappresentativi della popolazione italiana), il 43% del totale dichiara di avere notato i prodotti a marchio perché avevano uno sconto e il 49% li ha apprezzati dopo averli assaggiati in negozio.

E alla domanda che cosa li convincerebbe ad acquistare un prodotto a marchio, il 44% risponde “una prova gratuita” e il 22% un forte sconto sul prezzo.
Secondo il presidente di Popai Italia Daniele Tirelli i dati sono chiari: la pressione promozionale cui sono soggette le private label è fortissima, ma questa guerra al massacro è un danno per il margine del distributore e per le marche. Del resto, la sensibilità al prezzo del consumatore è un dato incontrovertibile, se il 71% degli intervistati apprezza lo sconto, il 47% utilizza il volantino. Ma il 75% ritiene le private label affidabili perché sottoposte a rigidi controlli da parte della catena.
È su questi due poli – una pressione promozionale crescente e la qualità intrinseca dei prodotti - che in sostanza si gioca la strategia di crescita dei prodotti a marchio del distributore il cui boom, nonostante l’aumento costante di quote di mercato (complice la crisi dei consumi), è ancora di là da venire.

La questione da risolvere sembra essere, più che tra industria di marca e distribuzione, tutta all’interno di quest’ultima che utilizza le private label in funzione squisitamente promozionale. Ne è convinto l’amministratore delegato di Grandi Salumifici Italiani Claudio Palladi: «Sembra quasi che la distribuzione si autolimiti nella definizione di una strategia sulle private label che dovrebbero essere gestite con una focalizzazione sulle vendite e con una visione di lungo periodo. Invece c’è una forte concentrazione sugli acquisti e su come recuperare maggiori contributi e premi dall’industria».

Che la situazione sia più complessa di quella che è lo conferma il direttore dei prodotti a marchio di Coop Italia Domenico Brisigotti: «Prima di qualsiasi discussione sulle private label e sulla loro pressione promozionale bisogna fare chiarezza su quali siano gli obiettivi del distributore riguardo alla marca privata. Se serve per costruire identità e istintività dell’insegna e per costruire un vantaggio competitivo, non posiamo liquidare il discorso in poche battute. Sono necessari tempi lunghi e investimenti. E riguardo alle dimostrazioni e agli assaggi in store, noi ne facciamo, ma non può diventare un’azione generalizzata, perché non c’è nessun prodotto che può supportare gli elevati investimenti richiesti. Certo, il tema legato alle promozioni va contestualizzato nel momento economico che stiamo tutti vivendo. Oggi la leva del prezzo gioca un ruolo tattico, non certo strategico, e anzi nel corso del 2010 posso solo pensare che la battaglia sarà ancora più aspra».

Il fatto che la store brand, poi, abbia in Italia una quota ridotta è dovuto a una carenza strutturale della grande distribuzione, sia perché la marca privata è apparsa con ritardo sia perché non viene utilizzata come leva per la differenziazione. Secondo Paolo Palomba, direttore generale di Altromercato, che in passato si è a lungo occupato di private label prima con Conad e successivamente con Sigma, «in Italia c’è ancora un alto potenziale inespresso, considerando che la marca d’insegna pesa per l’80% delle marche commerciali, mentre altre proposte che mettano l’accento sull’esclusività del prodotto non sono utilizzate. Eppure sono decisive per una maggiore segmentazione dell’offerta e per uscire dal paradosso che le private label da strumento di differenziazione dell’insegna si sono trasformate in vettori di omologazione di prezzo e di promozione».

Eppure i consumatori, stando alla ricerca di Popai, sono in grado di discriminare tra prodotti che competono sul prezzo e quelli che si spostano su una gamma superiore: per il 60% di essi infatti Terre d’Italia è una marca commerciale e per il 40% è un’azienda di nicchia o una grande marca alimentare, percentuali che diventano rispettivamente 80% e 20% nel caso di Top Esselunga. E il 40% è in grado di attribuire a Coop un pack di caffè al quale è stato cancellato il logo.
Non va comunque sottovalutato il fatto che nel segmento premium la scelta di alcuni distributori andrà verso un maggiore impegno sui capitolati per quanto riguarda qualità e innovazione per rispondere alla maggiore richiesta di qualità senza peraltro trascurare di dare risposte alla domanda di convenienza. Sarà in questa capacità di intercettare i due poli estremi della domanda che si giocherà la competizione tra retailer e chi non sarà in grado di sviluppare una strategia mirata, si infilerà in un circuito senza fine di riduzione di prezzi e margini.

A cura di Fabrizio Gomarasca