economia

Il commercio elettronico in Italia - Spunti di riflessione

l'opinione di

Filippo Genzini

Premessa

Il mondo del web è in continua evoluzione e per questo affascinante da esplorare, anche se riuscire a tenere il passo può risultare alquanto faticoso.

Circola su YouTube, ed è già stato presentato in qualche convegno e meeting aziendale, un bel video che chi non ha ancora avuto l’occasione di vedere può trovare all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=jpEnFwiqdx8.

La sensazione immediata che ho provato quando per la prima volta il suo ritmo incalzante ha catturato la mia attenzione è stata di frustrazione: tutto va così veloce che diventa impossibile per chiunque tenere il passo anche solo delle novità relative ai campi di azione o ai settori per cui si ha un interesse specifico e diretto. Se poi si considera il fatto che, a causa dei fenomeni indotti da svariate forme di concorrenza ibrida nonché dalla contaminazione sociale, culturale e religiosa indotta dalla globalizzazione e dai mezzi di comunicazione di massa, nessuno può dirsi sicuro al cento per cento dei confini dei propri ambiti di competenza, ecco che la speranza di poter riuscire a presidiarli può apparire vana e del tutto irrealistica.

Eppure la velocità con cui accadono le cose è così stupefacente, e la sfida che questo scorcio del nuovo millennio ci sta porgendo affascinante, da indurci ad accettare di correre sempre di più per tenere il passo e non venire marginalizzati.

Siccome la Rete ci sta cambiando la vita, quella personale e quella professionale, nei prossimi numeri di Tendenzeonline mi piacerebbe affrontare alcuni aspetti relativi a questa realtà, a cominciare dal tema dell’e-commerce.

Il commercio elettronico in Italia. Solo la comprensione completa del fenomeno può aiutare a trasformare in Principessa la Bella Addormentata

Il 14 maggio Gian Fulgoni, presidente di Comscore, società statunitense specializzata nelle misurazioni di marketing per il web ha presentato i dati del primo trimestre 2009 sull’andamento dell’e-commerce negli Stati Uniti indicando leggeri segnali di ripresa rispetto all’ultimo quarter del 2008 che per la prima volta aveva presentato un segno negativo (-3) sul periodo corrispondente dell’anno precedente.

Niente di straordinario, si tratta di un –1, che però è dovuto interamente ad una flessione nel turismo mentre tutti gli altri comparti sono sostanzialmente stabili rispetto ad un anno fa. La forte pressione promozionale adottata dai retailer dopo Natale per smaltire le rimanenze ha senz’altro avuto un impatto significativo, favorendo un aumento dei volumi compensato interamente dalla diminuzione dei prezzi.

Quattro i settori con segno più: sport e fitness, libri e riviste, videogame e accessori, software per giochi da pc, tutti con una crescita compresa tra il 23 ed il 12%. All’estremo opposto musica, film e video con un -22% e le forniture per ufficio con un -28. Da osservare comunque che, nel bene o nel male, in tutti i comparti il commercio elettronico ha lavorato meglio che il retail brick and mortar.

Interessante che il risultato piatto sia frutto di una significativa diminuzione tra le famiglie con reddito al di sotto dei 50.000 dollari all’anno compensata da una crescita nelle fasce comprese tra i 50 ed i 99 mila dollari ed in quella sopra i 100.000.

Anche tra i più abbienti, però, quelli a spendere di più sono stati i più giovani, tra i 18 ed i 44 anni, mentre i più anziani hanno mostrato comportamenti più prudenti. Non a caso negli ultimi mesi negli Stati Uniti si è registrata una ripresa della propensione al risparmio e, come dice Gian Fulgoni, ogni dollaro risparmiato è un dollaro non speso!

Proprio lo stesso giorno si è tenuto a Milano il convegno di Netcomm, il consorzio del commercio elettronico italiano, al quale ho assistito per la prima volta con la curiosità del non addetto ai lavori.

E devo confessare che la prima sorpresa, quando sono arrivato, è stata di non trovare visi noti. Quelli per intenderci che si incontrano normalmente agli eventi del mondo del largo consumo.

Così come ho trovato strano che Netcomm aderisca ad Assoinfor, l’associazione di categoria che aggrega gli operatori del settore informatico e non a Federdistribuzione, per esempio.
Un po’ come se i distributori che operano nel formato degli ipermercati aderissero a Federedilizia enfatizzando più l’aspetto senz’altro critico ed oneroso della costruzione dei centri commerciali che non la loro missione di rendere disponibili prodotti (e talvolta servizi) alla clientela finale.

Il dubbio che forse il settore non abbia ancora trovato una propria identità definitiva è stato confermato nel corso della prolusione introduttiva dalle parole del presidente Roberto Liscia che ha sottolineato più di una volta come il focus degli operatori dell’e-commerce italiano debba passare quanto prima dalle problematiche delle piattaforme tecnologiche alla comprensione dei bisogni e dei comportamenti degli “e-shopper”.

Ma c’è anche da dire che la struttura del settore nel nostro paese può giustificare almeno in parte il suo posizionamento attuale.

Si tratta di un canale distributivo ancora piccolo rispetto alle dimensioni che ha sviluppato non solo negli Stati Uniti ma anche nella maggior parte dei paesi europei: 6 miliardi di euro nel 2008, che rappresenta meno dell’1% del fatturato del commercio brick and mortar, quello che si svolge in forma moderna o tradizionale tra quattro solide mura.

Un canale dove due terzi di quello che viene venduto è rappresentato da servizi e solo un terzo da prodotti. Esattamente l’opposto di quanto accade negli Stati Uniti e nel resto dell’Europa. Dove il solo comparto del turismo rappresenta più del cinquanta per cento di tutto il fatturato, seguito dalle assicurazioni. E che i grandi distributori del largo consumo utilizzano in modo marginale.

Ed è proprio questa una delle cause addotte nel corso del convegno per giustificare l’arretratezza di tutto il comparto. Scelta strategica che non sta a me giudicare ma che tuttavia ritengo assolutamente giustificabile.

A tal proposito due dirigenti di altrettante insegne leader in Italia mi hanno espresso un paio di concetti per certi versi emblematici. Il primo considerava come le vendite realizzate online fossero confrontabili a quelle di uno dei circa centocinquanta punti di vendita della loro rete, benché operassero nel canale e-commerce da anni. Comprensibile che le risorse che ad esso possono essere dedicate siano marginali.

D’altra parte sviluppare l’e-commerce nelle medesime zone dove sono presenti i punti di vendita di un’insegna rappresenta un servizio alla clientela più che un business. Le vendite realizzate cannibalizzano in parte quelle fatte sul punto di vendita, impediscono di sfruttare appieno l’acquisto d’impulso, quello a più alta marginalità – gli stimoli in tal senso nei siti di e-commerce non sono ancora confrontabili con la cultura di merchandising sviluppata per rendere accattivante l’offerta tra gli scaffali – e, ultimo punto ma non meno importante – rende il rapporto con il cliente meno diretto.

Non è un caso se le banche, dopo aver spinto per anni i servizi online alla ricerca di un’efficienza che consentisse di tagliare drasticamente il costo del lavoro, stiano cominciando a ricredersi sulla bontà della loro strategia. Perché la relazione diretta (e personale) con il cliente rappresenta un patrimonio unico dell’azienda, che dovrebbe entrare a bilancio e tra i parametri di valutazione del suo valore reale.

Semmai per i distributori potrebbe essere interessante sviluppare attraverso l’e-commerce un progetto di copertura delle zone geografiche che non sono presidiate direttamente dalla rete fisica perché si tratterebbe di conquistare mercati e consumatori completamente nuovi. Perseguire questa strategia richiede tuttavia l’impiego di risorse considerevoli in termini di quantità e soprattutto qualità per costruire un’immagine, un posizionamento ed una notorietà di marca che non esistono al di fuori delle zone geografiche presidiate attraverso i punti di vendita.

Il secondo distributore osservava invece come il sito dell’insegna generasse ormai più contatti di qualsiasi altro punto di vendita della rete fisica. Ed in effetti, se la propensione dell’italiano ad acquistare su Internet è ancora bassa, l’abitudine a navigare alla ricerca di informazioni, di offerte e per confrontare i prezzi è invece consolidata. Questa è senz’altro un’applicazione della rete in cui le aziende credono e che raggiungerà crescenti livelli di sofisticazione tali da creare modalità sempre più innovative di ascolto e dialogo con la clientela.

Insomma, devo dire che l’argomentazione della scarsa varietà e qualità dell’offerta non mi convince fino in fondo. E questo mio scetticismo è motivato anche da un altro motivo.

Uno degli aspetti rivoluzionari dell’e-commerce è che in rete si aprono negozi virtuali ai quali si può accedere da ogni parte del mondo e quindi anche dall’Italia. Possibile che tutto quello che gli e-shopper internazionali trovano interessante debba essere snobbato dagli italiani? La giustificazione della scarsa padronanza della lingua è deboluccia. Il profilo dell’internauta non coincide ancora con quello della famosa massaia di Voghera ed è compatibile tutto sommato con la disponibilità di un’infarinatura d’inglese sufficiente per fare un acquisto online.

Né mi convince fino in fondo la giustificazione di tipo tecnologico della scarsa copertura della banda larga. Perché dalla ricerca realizzata e presentata da Eurisko emerge come una notevole ritrosia ad avvicinarsi all’e-commerce non riguardi solo chi non può farlo per problemi di accesso ad Internet, segmento per altro non rappresentato nel campione selezionato, quanto anche buona parte di coloro che nella rete possono entrare agevolmente da casa e dall’ufficio.

E allora? I motivi devono essere altri.

Per esempio, Eurisko individua nella popolazione femminile che non lavora, una percentuale del 55% del totale, ben più alta di quella degli altri paesi, un altro elemento di resistenza. La donna, casalinga ma anche responsabile d’acquisto per eccellenza, avendo tutta la giornata a disposizione è ragionevole che trovi più gratificante uscire di casa e visitare i punti di vendita, toccando i prodotti con mano e magari scambiando anche due chiacchiere con amiche e negozianti che non ordinare via Internet.

Se si aggiunge che in Italia abbiamo anche una delle popolazioni più anziane dell’Occidente e che l’età alla quale si va in pensione è piuttosto bassa, ecco che possiamo individuare un altro segmento di popolazione con molto tempo a disposizione che può trovare un elemento di integrazione e socializzazione più nello shopping tradizionale che non in quello digitale.

Ma non sottovaluterei nemmeno altri elementi che nella mia esperienza lavorativa ho avuto modo di scoprire condizionano fortemente la peculiarità e la distintività di tanti aspetti del Bel Paese.

Innanzitutto l’Italia ha una struttura geografica ed una storia di urbanizzazione che hanno contribuito in misura rilevante al crearsi ed al sopravvivere di un sistema commerciale estremamente polverizzato. Tra tradizionale, moderno e ambulantato parliamo di 815.000 esercizi a fine 2007. Quella della scarsa tempestività nell’aggiornamento delle statistiche ufficiali è una delle debolezze strutturali del nostro sistema ma, per quanto vi possa essere stata un’emorragia nel corso del 2008, stiamo parlando di un negozio a poche centinaia di metri da casa o al massimo a pochi minuti di tragitto in auto ogni 74 abitanti. Un panorama completamente diverso da quello di molte zone degli Stati Uniti o del Nord Europa dove non esistono centri cittadini e per raggiungere un centro commerciale bisogna stare in auto delle ore. Ed all’interno del quale il dettaglio tradizionale ha viziato la clientela conoscendone i gusti, offrendo credito, adattando l’offerta al proprio mercato. Pensiamo per esempio per quanto riguarda l’abbigliamento alle piccole modifiche ai capi acquistati per adattarli in larghezza e lunghezza. E senza nemmeno dover scomodare le sartorie.

D’altra parte anche le vendite per corrispondenza ed i cataloghi che in altri paesi hanno consentito ad alcune aziende di diventare dei colossi distributivi da noi in passato hanno sempre avuto vita grama. E credo proprio per i medesimi motivi: possibilità di toccare con mano, di provare, di portarsi a casa subito l’articolo scelto, di pagarlo nel modo che più aggrada, di avere una persona fisica a cui fare eventuali rimostranze rappresentano valori che le/i responsabili di acquisto non sono ancora disposti a sacrificare al vantaggio di prezzo e/o di tempo risparmiato.

Insomma, pur senza voler fare la Cassandra, credo che l’e-commerce in Italia assumerà una fisionomia atipica rispetto a quella che si va configurando negli altri paesi, continuando ancora per parecchio tempo ad esprimere un potenziale inferiore a quello che la popolazione e la ricchezza del paese potrebbero suggerire. Un peccato, senz’altro, perché a livello personale trovo affascinante la professionalità di chi opera nel settore e gli strumenti di marketing creati per ottimizzare le performance dei siti in termini di traffico e di vendita. Soluzioni che ripresentano in versione digitale tecniche e strumenti adottati dai distributori tradizionali per ottimizzare la circolazione nel punto vendita, rendere interessanti ed efficienti allo stesso tempo gli scaffali, proporre offerte speciali, profilare i comportamenti di spesa per offrire carrelli personalizzati.

Credo però che il successo di Internet come canale di vendita potrà essere maggiore se gli sforzi si concentreranno sulla comprensione dei reali bisogni dei clienti effettivi e potenziali. E se si individueranno le vere cause, legate al modo di pensare e di comportarsi degli italiani, che ne rallentano oggi lo sviluppo, perché solo così facendo sarà poi possibile implementare le azioni di marketing più adeguate in termini di offerta di prodotti e servizi per sfidare la concorrenza del retail offline.

*Partner di Around Marketing