economia

Aspettando la ripresa

C’è più Stato e meno mercato nel nostro futuro? L’effetto della crisi finanziaria - che ha sorpreso tutti, dal singolo operatore, alle banche, alle istituzioni finanziarie e alle autorità di vigilanza - sembra per ora avere questa paradossale conclusione, che segna una formidabile inversione di tendenza dopo tre decenni di progressiva deregolamentazione e liberalizzazione. E, come è ben noto, in prima linea in questo processo di nazionalizzazione, anche se l’aborrito termine viene accuratamente evitato, c’è proprio l’iperliberista America, faro del capitalismo e della libertà d’impresa. L’ingresso del capitale pubblico in banche e aziende - i casi di Freddie Mac, Fannie Mae, Aig, Bear Stearns, General Motors e American Express sono solo i più clamorosi - non era evidentemente evitabile, se si voleva evitare la catastrofe economico-sociale. E l’obiettivo rimane quello di rendere il meno violenta possibile la recessione che è già iniziata. Ma a lungo termine?
Le domande che tutti si pongono sono tante.

Nessuno pensa realmente che i capi di Stato e di Governo in America, Europa, Giappone, così come nei paesi che sono stati chiamati a far parte del nuovo G20, vogliano far rivivere l’epoca dello statalismo. La storia ha dimostrato che un eccesso di presenza dello Stato nell’economia riduce l’efficienza e danneggia la competitività, rallenta l’innovazione e punisce la modernizzazione dell’ap-parato produttivo. Ma anche tenendo conto di questa diffusa consapevolezza, rimane che gli aiuti, quando ci devono essere, devono avere carattere temporaneo, di emergenza, di salvaguardia delle aziende competitive da un disastro che non dipende da loro stesse, ma dal crollo del mercato; il vero rischio che abbiamo dinnanzi è che invece gli aiuti da temporanei diventino permanenti, che si salvino non solo le imprese efficienti ma quelle decotte (il caso General Motors è emblematico) e che alla fine si paghino costi duraturi di perdita di efficienza e competitività legata a una nuova invasività del settore pubblico in quello privato.

Si va verso la recessione, e questo è un fatto.Le ultime previsioni del Fondo Monetario danno per il 2009 un calo del Pil dello 0,5 % nell’Eurozona e dello 0,7 negli Usa, dello 0,2 in Giappone e dello 0,1 in Canada. Se la passano apparentemente meglio i paesi Bric, cioè Brasile, Russia, India e Cina: per loro il 2009 porta una continuazione della crescita che sarà rispettivamente del 3, del 3,5, dello 6,3 e dell’8,5 %. Ma è ben noto non solo che comunque il rallentamento mondiale sta già colpendo fortemente i loro sistemi di produzione ed export, ma soprattutto che il loro dinamismo non aiuterà i paesi sviluppati a uscire dalle secche, con buona pace del nuovo sistema multipolare.

Le ricette contro la crisi messe a punto in occasione del meeting del G20 del novembre scorso non sembrano per ora portare benefici e, mentre si aspetta come l’oracolo di Delfi che il nuovo presidente americano Barack Obama porti clamorose novità, in realtà si dovrà attendere almeno fino ad aprile, quando il G20 si riunirà di nuovo, per sapere quali effetti stanno avendo le cure da cavallo cui vengono sottoposte le economie di tutti i principali paesi.
Ormai i tassi d’interesse sono giunti a zero in America e vicini al 2 % in Europa, e meno di così è difficile aspettarsi. Si parla, giustamente, di puntare a politiche fiscali globali espansive, e queste certamente sono in arrivo; ma anche in questo caso i tempi di reazione dei sistemi produttivi sono lunghi, mentre la disponibilità al consumo della gente continua a ridursi.
La crisi, dunque, morde più del previsto e occorre prepararsi a un periodo abbastanza prolungato di difficoltà.

Ciò che è importante è che la crisi non rappresenti solo motivo di doglianze, ma venga percepita come opportunità, con misure pubbliche e private adeguate all’obiettivo di rinforzare il sistema di produzione e servizi in vista della ripresa che, prima o poi, arriverà.

Sono formule complesse, quelle che occorre adottare, rifuggendo da soluzioni semplicistiche e, soprattutto, demagogiche. Tutti sono chiamati a fare la loro parte, Governi, imprese e sindacati, per fare sì che gli investimenti - sia quelli privati, sia quelli finanziati coi soldi pubblici - si indirizzino verso scelte di innovazione e modernizzazione, e non per praticare una respirazione bocca a bocca a realtà già defunte. E questo mentre si mettono a punto le necessarie nuove regole di funzionamento del mercato che, se dovranno togliere i varchi attraverso i quali è stato possibile a soggetti poco responsabili di devastare il mercato finanziario, non dovranno risultare troppo strette da togliere fiato alla libertà delle imprese di rischiare e produrre ricchezza e benessere.

A cura di Enrico Sassoon, Direttore Harvard Business Review Italia