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Distribuzione commerciale: gli effetti della regolamentazione regionale

Una prima possibile analisi empirica dei dati per la valutazione concorrenziale delle politiche regionali: il caso del commercio

La seconda parte del lavoro curato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato prende le mosse dall’esigenza di investigare la relazione, se esistente e significativa, tra processi di liberalizzazione e risultati economici. Il lavoro si concentra su di un particolare comparto, quello della distribuzione commerciale, ma, mutatis mutandis, può essere esteso a diversi altri settori sempre con il medesimo obiettivo di fondo. Il caso del commercio può essere allora visto come un progetto pilota, in grado di porre le premesse e tracciare le linee essenziali per una più ampia discussione e per un futuro filone di ricerca dalle interessanti prospettive.
L’inciso della frase con cui si apre questo paragrafo conclusivo non è di poco conto, e anzi sottolinea il principale limite cui è soggetta la nostra analisi sul rapporto tra qualità della regolazione e performance economiche. Essa è difatti di tipo descrittivo, e non esplora la direzione del nesso causale, né la significatività statistica della relazione: in altre parole, le dinamiche delle variabili economiche prese in considerazione potrebbero essere il risultato di tanti altri fattori diversi dalle politiche di liberalizzazione.
Ciononostante, l’utilità di un’analisi descrittiva consiste appunto nel ‘descrivere’ la situazione reale, attraverso i dati di cui è possibile disporre. A tal fine, tuttavia, occorre una chiave di lettura, uno schema logico che permetta di districarsi all’interno di una gran mole di numeri, a volte contraddittori. Il modello interpretativo che si è scelto di adottare, e che è stato illustrato all’inizio della sezione quinta, ha rappresentato il filo conduttore nell’esposizione dei risultati. Rimane inteso, come è ovvio, che tale modello non è l’unico possibile, né necessariamente il migliore.
L’obiettivo è dunque cercare di comprendere se le Regioni (o meglio, i gruppi di Regioni) caratterizzati da best practices regolatorie raggiungono risultati particolari in termini delle variabili presenti nell’ampio dataset appositamente costruito (con dati annuali, riferiti al settore commerciale e disaggregati per Regione). Ebbene, in accordo allo schema interpretativo proposto, la risposta è positiva. Nelle aree del Paese maggiormente coinvolte da processi di liberalizzazione tesi a garantire un più elevato grado di apertura del mercato e di tutela della concorrenza, si crea inizialmente una situazione di marcata instabilità. Tale situazione porta le imprese (almeno quelle più pronte a recepire i cambiamenti in essere e più dinamiche nella reazione) a mettere in atto dei processi di ridefinizione delle strategie e di riorganizzazione interna, processi che agiscono su due fronti. Dal lato dello sviluppo della capacità produttiva, si intraprendono investimenti con lo scopo, nel medio-lungo periodo, di acquisire la dimensione giusta per operare in mercati più competitivi. Dal lato della ricerca dell’efficienza e dell’economicità di gestione, nel breve periodo si riduce il ricorso al fattore lavoro. Al contempo, però, al fine di garantirsi maggiori possibilità di successo in mercati divenuti più ‘difficili’, le imprese riorientano il fabbisogno di manodopera verso i segmenti di forza lavoro caratterizzati da un livello più elevato di qualifica e specializzazione e, conseguentemente, di remunerazione. In generale, ciò tende a far crescere i redditi e le retribuzioni unitarie, contenendo al contempo la dinamica del monte reddituale e retributivo (che rappresentano il costo del lavoro per l’impresa): in altre parole, le maggiori spese connesse al ricorso a personale più qualificato (aumento della qualità) controbilanciano solo parzialmente i risparmi di costo legati al minore utilizzo complessivo del fattore lavoro (diminuzione della quantità). Altre interpretazioni (alternative o, più verosimilmente, aggiuntive) sono ugualmente possibili per spiegare l’aumento delle remunerazioni unitarie, prime tra tutte l’emersione e la regolarizzazione del lavoro ed un maggior livello di sindacalizzazione del personale. Lo spostamento della composizione della forza lavoro verso il segmento dipendente e l’aumento degli oneri sociali unitari giocano a favore di queste interpretazioni.
Nel caso particolare della grande distribuzione (supermercati, grandi magazzini, ipermercati e centri commerciali), il calo degli addetti si accompagna alla riduzione degli esercizi e della superficie totale di vendita, determinando però in generale, come risultato finale, un aumento della dimensione e della superficie media degli esercizi rimanenti. Tali dinamiche, se da una parte rappresentano il risultato del tentativo di razionalizzare la distribuzione e di conseguire una maggiore efficienza, dall’altra potrebbero essere il sintomo di un processo di liberalizzazione compiuto solo ‘a metà’, con un assetto di mercato cristallizzato dalla presenza di pochi grandi soggetti che, dopo aver sostituito i tanti piccoli operatori precedentemente attivi, rimangono tali, cioè pochi, mettendo a rischio i meccanismi (e i benefici) della concorrenza. La riduzione del numero di strutture e della superficie totale di vendita della grande distribuzione alimentano questi timori, così come le difficoltà legate allo sviluppo quantitativo dell’intera rete di esercizi commerciali al dettaglio.
Infine, la maggiore efficienza di gestione e i risparmi di costo producono effetti positivi sulla dinamica della produttività (del lavoro).
In definitiva, allora, la maggiore competizione tra imprese in mercati aperti e liberalizzati si traduce in un generale tentativo di conservare e, se possibile, incrementare le rispettive quote di mercato: la variabile principe per verificare l’esercizio della concorrenza tra imprese è l’andamento dei prezzi, cruciale, tra le altre cose, anche per misurare gli (eventuali) guadagni di benessere dei consumatori. Ebbene, contesti di inflazione più contenuta caratterizzano proprio le Regioni dove più forte è stata giudicata la portata delle riforme liberalizzatrici nel settore della distribuzione commerciale.
Rimangono, come è naturale che sia, molte le questioni aperte. Questa prima risposta al problema del rapporto tra qualità della regolazione e dinamiche (macro)economiche a livello regionale, tracciando una linea di ricerca ancora relativamente poco esplorata, non può che richiedere ulteriori sviluppi. Due su tutti: l’estensione dell’analisi ad altri settori, e la misurazione della (eventuale) significatività della relazione.

Note conclusive

Dalla ricerca effettuata a livello regionale sul rapporto fra quadro normativo, grado di liberalizzazione e performance nel settore della distribuzione commerciale si possono trarre le seguenti considerazioni.

In primo luogo, come era da attendersi, il contesto normativo regionale relativo al comparto del commercio si presenta quanto mai variegato, e il federalismo commerciale appare ormai una realtà in fase di consolidamento.

In secondo luogo, la maggiore libertà riconosciuta alle Regioni non sempre è coincisa con una maggiore liberalizzazione, a conferma del fatto, casomai ce ne fosse stato bisogno, che non tutte le Regioni perseguono gli stessi obiettivi di politica industriale. Lo scenario che si può osservare oggi in Italia è infatti quanto mai diversificato e, alle poche Regioni che hanno tentato di liberalizzare ed aprire alla concorrenza un comparto tradizionalmente molto regolato (almeno fino al 1998), si sono contrapposte le molte altre Regioni che, in occasione del recepimento del Decreto Bersani, hanno invece introdotto ulteriori vincoli. In generale, la situazione non appare soddisfacente, e le forze inerziali che si contrappongono all’introduzione di una maggiore concorrenza sembrano prevalere. In prospettiva, poi, lo scenario sembra destinato persino a peggiorare, almeno stando alle leggi regionali più recenti o attualmente in fase di discussione. Da questo punto di vista, non possono che essere apprezzate le disposizioni introdotte dal Decreto Bersani del 2006 in materia di commercio.

In terzo luogo, la liberalizzazione mancata in diverse Regioni è dipesa anche, ma non solo, da alcune falle presenti nello stesso Decreto Bersani del 1998, come l’Autorità aveva già avuto modo di rilevare a suo tempo, che hanno permesso un’interpretazione in senso restrittivo della riforma e che, in certi casi, ne hanno annullato gli effetti.

Fatte le necessarie premesse di tipo giuridico, è stato interessante verificare alcuni aspetti di tipo più prettamente economico relativi all’andamento del comparto della distribuzione commerciale all’interno dei vari mercati regionali.
Per quel che riguarda la struttura del settore, l’universo dei soggetti che ricadono nella definizione di distribuzione commerciale si presenta piuttosto complesso da studiare nel suo insieme, a causa della contemporanea presenza di piccoli esercizi di distribuzione e grandi catene di distribuzione di massa (grande distribuzione organizzata, GDO).
La piccola distribuzione è un settore concorrenziale, con molte imprese ed un elevato tasso di turnover, in cui è comunque sempre più difficile -a causa delle dinamiche di integrazione verticale- distinguere la distribuzione al dettaglio da quella all’ingrosso. La grande distribuzione invece, soprattutto in altri Paesi, si è recentemente contraddistinta per:

  • una concentrazione crescente dei gruppi (specialmente nel settore alimentare);
  • la formazione dei gruppi di acquisto;
  • lo svilupparsi di forme di integrazione verticale fra commercio all’ingrosso e al dettaglio, con la comparsa;
  • di marchi dei distributori;
  • la crescente internazionalizzazione dei gruppi e delle catene di maggiori dimensioni.

I fenomeni di concentrazione verticale e orizzontale osservati negli ultimi anni hanno avuto come conseguenza quella di rafforzare il potere delle imprese di grande distribuzione rispetto ai fornitori, e di far crescere le quote di mercato dei prodotti venduti col marchio del distributore.
L’internazionalizzazione, invece, viene perseguita per ottenere economie di scala laddove le possibilità di penetrazione del mercato nazionale risultano esaurite, cioè non è più possibile perseguire strategie di crescita per via esterna (acquisizioni, fusioni) o per via interna (aumento della propria quota di mercato). Questo fenomeno appare più evidente in alcuni Stati europei, dove il mercato domestico risulta già abbastanza saturo, mentre in Italia le strategie di internazionalizzazione restano in secondo piano rispetto ai tentativi di incrementare la quota sul mercato interno.

Passando al panorama regionale italiano esaminato in questo lavoro, appare corretto affermare che la distribuzione commerciale ha conosciuto i cambiamenti strutturali più significativi in quelle Regioni che hanno introdotto maggiori elementi di apertura alla concorrenza.
Nel periodo successivo all’emanazione della normativa regionale di recepimento del Decreto Bersani 114/1998, laddove sono state introdotte leggi regionali più liberiste, si è assistito infatti ad un maggior grado di instabilità e dinamicità nel settore del commercio, testimoniato da alcuni fenomeni che hanno inciso in modo diretto sulla struttura del settore stesso e sugli orientamenti strategici delle imprese. Per i dettagli sui risultati si rimanda alla parte seconda; in generale, comunque, in queste Regioni si è verosimilmente innescato un processo di ristrutturazione volto alla ricerca di economie di scala, che ha portato alla selezione dei punti vendita più efficienti, ad un loro aumento dimensionale e alla riduzione del personale con un contemporaneo spostamento della domanda di lavoro verso segmenti di occupazione a qualifica più elevata.
Inoltre, analizzando la struttura del settore, una nota positiva proviene da alcune Regioni che nel 2000 presentavano ancora una situazione particolarmente deficitaria in termini di metri quadri di superficie di vendita pro-capite, e che nei cinque anni successivi hanno iniziato a colmare il gap che le divide dalle altre Regioni. Più in generale, le strutture despecializzate sembrano diffondersi sempre di più col passare degli anni, e il comparto alimentare risulta, a sua volta, più in crescita di quello non alimentare.
Le conclusioni della nostra analisi risultano sostanzialmente in linea con la già citata ricerca condotta dall’OCDE nel 2001 relativamente al settore della distribuzione commerciale in Europa. Per ciò che riguarda la GDO, il lavoro dell’OCDE ha messo in evidenza come i limiti imposti alle grandi superfici di vendita abbiano avuto come conseguenze quelle di:

  1. rallentare il processo di modernizzazione del settore, impedendo il raggiungimento di economie di scala;
  2. limitare la diffusione di servizi specializzati;
  3. mantenere posizioni dominanti in certe aree impedendo l’ingresso di nuovi entranti;
  4. frenare il processo di concentrazione del settore;
  5. ridurre il potere di mercato delle imprese nei confronti dei fornitori.

Le limitazioni alle grandi superfici di vendita sono spesso giustificate dalla classe politica che le introduce con l’esigenza di salvaguardare i posti di lavoro dei piccoli dettaglianti; in realtà, i dati elaborati dall’OCDE tendono a dimostrare come la diffusione progressiva dei punti vendita con grandi superfici abbia come effetto quello di aumentare la specializzazione, favorire la creazione di nuovi punti vendita ad elevato valore aggiunto e forte intensità di manodopera, e innescare ricadute positive sui punti vendita vicini (spillovers).
Per ciò che riguarda, invece, la distribuzione al dettaglio nel complesso, le principali possibili fonti di restrizioni rilevate nei Paesi europei sono rappresentate dall’orario di apertura, dalle modalità di fissazione dei prezzi dei prodotti e dalla regolamentazione delle attività di vendita promozionale. Queste restrizioni, laddove introdotte, dovrebbero mirare a tutelare i consumatori dalle pratiche sleali; in realtà, anche in questo caso, i dati emersi dal lavoro dell’OCDE tendono a dimostrare che la riduzione delle restrizioni, sia essa introdotta a livello statale che regionale, genera effetti positivi sulle performance e sul grado di contendibilità del settore, mentre una regolamentazione eccessivamente (e ingiustificatamente) restrittiva e vincolistica può minacciare il potere d’acquisto dei consumatori e frenare il processo di modernizzazione.
In conclusione, l’OECD evidenzia come il settore della distribuzione al dettaglio sia cambiato molto negli ultimi anni: da un lato, si è avuto un potenziamento delle economie di scala e di gamma eventualmente sfruttabili; dall’altro, l’aumento degli ostacoli all’ingresso nel mercato ha frenato i processi di concentrazione, verticale e orizzontale, e ha favorito l’internazionalizzazione delle catene di distribuzione.
Le restrizioni all’accesso nel mercato (ad esempio attraverso l’imposizione di obblighi speciali e di vincoli alla localizzazione e alle superfici di vendita) smorzano il dinamismo del settore e le pressioni della concorrenza, e sono tra le concause dell’aumento dei prezzi al consumo. In particolare, le restrizioni alle grandi superfici di distribuzione limitano la specializzazione del settore, rallentano la diffusione dei magazzini ad elevato valore aggiunto ed impediscono ricadute positive sulla dinamica dei prezzi finali.
Come segnalato dagli stessi Autori, tuttavia, il lavoro dell’OCDE soffre di due importanti limitazioni.
La prima è rappresentata dalla circostanza che l’esame e il confronto della regolazione nel settore della distribuzione commerciale si svolgono con esclusivo riferimento alla normativa nazionale dei Paesi membri, e non scendono ad un livello di dettaglio e di disaggregazione territoriale più spinto (ad esempio, regionale), pur rilevandosi comunque la presenza di forti vincoli locali al processo di liberalizzazione.
La seconda limitazione fa invece riferimento al fatto che l’analisi condotta è puntuale, essendo circoscritta al solo 1998, e non prende in considerazione gli (eventuali) scostamenti tra gli andamenti delle variabili negli anni precedenti ed in quelli successivi alla riforma della disciplina di settore.
Il nostro studio tiene conto di entrambe queste problematiche.

Per informazioni e approfondimenti, consulta il rapporto completo dell’Agcm.