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Quale innovazione per una crescita sostenibile?

l'opinione di

Si parla tanto di innovazione perché i risultati vanno raggiunti in tempi sempre più brevi. Ma questo efficientismo genera una controproducente “ansia da prestazione” e lascia cadaveri sul terreno: il 90% dei consumer good, dopo pochi anni dal lancio, non è più sugli scaffali. Lo “shortism” pare più un innovation killer che una spinta allo sviluppo.

Un colpo di genio, una scoperta casuale sono sempre possibili e auspicabili. Ma l’innovazione dovrebbe essere frutto di una strada da percorrere con metodo. Metodo deriva da due parole greche: meta, “oltre”, e odòs, “strada”. Significa “via per raggiungere uno scopo”. Non confondiamo quindi l’innovazione con la creatività o con il semplice miglioramento di prodotto. Alla generazione di un valore duraturo si arriva percorrendo con lentezza e pazienza una strada – dentro o fuori dalle regole – che presenta sempre dei rischi, perché l’arrivo può essere incerto.

Fino a un certo punto della storia delle imprese, innovazione è stata sinonimo di “miglioramento”. Oggi non è più così. Proprio oggi che le azioni dell’industria hanno ripercussioni molto più forti che in passato sulle persone e sulla loro vita. Per questo motivo, più che sul concetto di “innovazione”, vorrei focalizzarmi su quello di “crescita”.

Nell’età pre-tecnologica il consumo era soddisfazione di un bisogno. Oggi, invece «le merci hanno bisogno di essere consumate e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno sia prodotto. Si deve consumare tutto ciò che si è prodotto» [Umberto Galimberti, “Psiche e teche. L’uomo nell’età della tecnica”, Feltrinelli, Milano 2002].

Dunque siamo “condannati” alla crescita dall’esigenza di sostenere l’industry, non di soddisfare i bisogni delle persone come si faceva un tempo. Non c’è più collegamento tra la nozione di “crescita” e quella di “progresso”. Proprio come la globalizzazione non è frutto del sogno di vivere meglio, ma della necessità delle imprese di crescere esportando merci, modelli di consumo e di immagine.

Siamo di fronte a un pericoloso rovesciamento di prospettiva. Per questo credo che oggi la sfida di un futuro fatto di rapide e incontrollabili mutazioni la si debba affrontare ponendosi domande legate più al “come” fare, che al “quanto” fare. Se innovare serve a “crescere”, un primo punto fermo è a mio avviso l’esigenza di riformulare la nozione di “crescita” alla luce del concetto di “sostenibilità”.

C’è voluto il pericolo improvviso del surriscaldamento terrestre – purtroppo o per fortuna – per farci capire che l’uomo rischia di andare in rovina proprio per via delle sue capacità. Fino a pochi anni fa quella di “sostenibilità” era un’idea élitaria per sognatori o catastrofisti. Oggi è un modo di ragionare, in tutti i campi. Questa idea ci dice che la crescita deve essere finalizzata al “bene” delle persone. “Stop thinking about consumers and start thinking about people”: è la parola d’ordine, ma come viene calata nella pratica? Sappiamo veramente cosa vogliono le persone? In campo alimentare “nutrizione equilibrata” è la parola d’ordine, perché le persone sono passate da una mentalità “passiva” a un comportamento “attivo”. Chi è – almeno nei paesi industrializzati – che non vuole mantenersi “healthy” e “active”? Oggi il 50% dei nuovi prodotti lanciati ogni anno in Europa, infatti, è ascrivibile alla categoria “healthy”.

Sulla base di questa attenzione al benessere, l’industria del Food ha da anni instaurato una partnership con la scienza della nutrizione. Ma la scienza è stata spesso utilizzata, in modo insostenibile, come leva di marketing. Troppe volte l’ “healthy” è stato certificato da un sapere scientifico che non cercava di soddisfare un bisogno ma di produrlo.

Questa forma di inganno ha generato nelle persone dissonanza cognitiva, ansia e diffidenza. Le ha rese spesso incapaci di cogliere il reale contenuto di servizio dei prodotti. Oltre che dare spazio alle frange più aggressive dell’antindustrialismo.

I grandi scienziati ci hanno insegnato che il compito del ricercatore non è trovare conferme alla propria teoria, ma andare a caccia dei suoi punti vulnerabili in modo da poterla sostituire con una teoria migliore e che spiega di più. Ma il “dubbio” programmatico di una scienza degna di questo nome mal si accorda con la necessità del marketing – sia pure sacrosanta – di avere certezze spendibili nell’immediato e schemi interpretativi stabili.

Quella che viene definita “medicalizzazione” del cibo si sta dimostrando insostenibile, perché le guide, le indicazioni, gli standard sono elaborati da ricercatori che debbono essere “politically correct” nei confronti delle aziende. I medici oggi possono dire ai fumatori “feel free to say no”, ma possono evitare lo spamming in posta elettronica che pubblicizza farmaci? Gli scienziati sono in grado di comunicare responsabilmente le controindicazioni e gli effetti collaterali di un prodotto alimentare? I nutrizionisti riescono a consigliare alle persone di autolimitarsi e di “mangiare di meno”? Per uscire da questa impasse bisognerebbe cercare di riportare le cose alla giusta dimensione.

Che l’innovazione possa generare una fiammata di valore ma si dimostri poi “insostenibile” sul lungo periodo lo abbiamo visto, qualche tempo fa, dall’insuccesso dei cosiddetti prodotti “dietetici”. Lo vediamo oggi nel campo dell’Hi-tech, dove l’obsolescenza è programmata nel giro di pochi mesi perché la corsa all’innovazione è guidata dalle mode e non dai bisogni reali. Il videotelefonino fu bocciato dal mercato nel 1993 come cosa deliziosamente inutile, ma è rinato dieci anni dopo e lo abbiamo reso indispensabile ai nostri figli. Lo vediamo dalle auto di lusso dell’alta gamma, che dopo soli due anni perdono valore di oltre il 50% (ufficialmente, perché nella realtà è di più). È una logica che non è più legata alla sostanza del bene.

Sono esempi su cui riflettere. Ci mostrano una crescita drogata, che soddisfa l’esigenza di produrre, non le esigenze di vita. Ci mostrano un gap tra marketing e reale valore del prodotto, tra aziende e persone. Ed è una distanza che aumenta quando associazioni scientifiche o parascientifiche offendono la nostra intelligenza certificando come “healthy” prodotti ipercalorici. Non dobbiamo assoggettarci a queste connivenze perché rischiano di incrinare il patto di fiducia tra compratore e venditore su cui si basano le regole del libero scambio.

In futuro dovremo saper coniugare sempre di più la nostra crescita con la scienza, ma anche con un nuovo modello comunicativo. Dovremo capire cosa sia meglio per le persone, ma anche con quali modalità comunicarlo, perché la fiducia si basa sulla trasparenza della comunicazione. Occorre ripartire dall’uomo.

In questo senso un vero punto di inizio, fu la piramide alimentare dalla Food and Drug Administration lanciata negli Stati Uniti all’inizio degli anni ’90. Piaccia o no, comunicava guideline scientifiche che divennero in breve uno strumento per progettare l’innovazione e anche una chiara base informativa. Dalla piramide alimentare ai Nutritional Signpost (i cosiddetti “semafori” di Tesco, per esempio), l’industria ha compiuto notevoli e interessanti sforzi per comunicare in modo trasparente.

È molto positivo che sull’efficacia di queste forme di comunicazione si sia acceso un dibattito. Di certo bisogna continuare su questa strada, ma occorre mettere ordine nella quantità, perché un uso eccessivo del labelling rischia di decontestualizzare i messaggi. Segnali di disagio al proposito stanno arrivando anche dagli Stati Uniti. «The problem with nutrient-by-nutrient nutrition science – ha scritto la nutrizionista Marion Nestle – is that it takes the nutrient out of the context of food, the food out of the context of diet and the diet out of the context of lifestyle».

La critica rivolta all’industria alimentare è quella di dimenticare il “contesto”. La si invita a ricordare che gli esseri umani non sono semplici “assimilatori di nutrienti”. L’ansiogena posologia medica non deve fare dimenticare che il cibo è anche piacere, convivialità, volersi bene.

Noi stiamo lavorando da anni per unire con trasparenza informazioni sul serving, modalità di consumo e ricette alle tabelle nutrizionali. Ma ci rendiamo conto che non è ancora sufficiente. Perché una innovazione veramente sostenibile può nascere solo dal pensare di più allo stile di vita delle persone, alla loro cultura più che ai nessi di causa-effetto della biochimica. Bisogna mettere al centro del nostro futuro le persone che si interrogano quotidianamente sul bisogno di mantenersi “healthy” e che non possono districarsi nel caos informativo di 17mila nuovi prodotti immessi ogni anno sul mercato. Sono persone che esprimono l’esigenza di “autolimitarsi” ma che non sono più in grado di valutare tutte le alternative disponibili e le loro conseguenze.

Se l’individuo non è in grado di rappresentarsi le conseguenze rilevanti delle proprie azioni, se le sue scelte di consumo dipendono sempre più da mode, fatti psicologici o culturali difficilmente prevedibili, non basta informarlo. Bisogna anche “ascoltarlo” mettendo in secondo piano i metodi statistici.

Nella società delle reti, «Markets are conversations, markets consist of human beings, not demographic sectors» [Sono le due prime “tesi” di “The Cluetrain Manifesto”]. I problemi (e anche le sofferenze) di coloro che “serviamo”, ci dicono che a cambiare non deve essere la nostra missione di business, ma il nostro modello relazionale. Cosmesi maschile, cellulari e Suv è giusto che rientrino nel regno della “desire economy” e nella sua logica di creazione di bisogni fittizi. Ma in campo alimentare, oggi, il nostro dovere è invece quello di “ascoltare”.

L’innovazione sostenibile dovrebbe essere questa, non l’affannosa ricerca di escamotage per uscire vivi dalla cruenta battaglia dei prezzi. Dovrebbe essere pensare agli impatti sul welfare delle malattie cardiovascolari dovute a cattiva nutrizione. Dovrebbe essere pensare che nell'Unione europea il 27% degli uomini, il 38% delle donne e quasi cinque milioni di bambini sono dichiarati obesi, e ogni anno si verificano 300/400mila nuovi casi. Dovrebbe essere lavorare allo sviluppo di una coscienza critica che allontani il rischio di un aumento di queste cifre nelle future generazioni.

Se non riusciremo a facilitare questa intelligenza critica, il rischio che corriamo è enorme, e ha come posta in gioco la credibilità dell’industria alimentare di marca.
La scienza nutrizionale è certamente una grande alleata. Ma, da un lato, le variabili individuali (gusti e stili alimentari, etnie, intolleranze, fattori genetici eccetera) rendono difficile una “scienza esatta” e globalizzata della nutrizione. Dall’altro a guidare le scelte di consumo alimentare degli individui è sempre di più una “bounded rationality”.

In questo contesto la vera sfida da raccogliere è quella di far capire che l’alimentazione è solo un tassello dell’insieme complesso che unisce stile di vita, condizione psicologica, tipo di attività, ambiente e genoma. Stare bene è un progetto esistenziale e comportamentale (non una moda) che chiede alle aziende la proposta di modelli positivi. Non lo si aiuta di certo con l’accanimento informativo di un labelling che rischia di non rispettare più i limiti e le capacità di comprensione della mente umana.

L’educazione, la formazione e l’informazione non possono più nascere da una ipocrita “cultura assistenziale” delle industrie, ma dalla responsabilità sociale di imprese che desiderano creare utilità e benessere per le persone. Di imprese che hanno il coraggio di generare discontinuità con una innovazione che impatti anche socialmente. La rilevanza e la competitività di queste imprese saranno sempre più legate alla loro capacità di farsi ascoltare con informazioni in grado di creare conoscenza dell’equilibrio nutrizionale.

Dobbiamo accettare il fatto di avere dei doveri superiori a quelli di altri comparti industriali. La posta in gioco è la sostenibilità della nostra crescita, il nostro futuro.

*Sintesi dell’intervento alla seconda sessione plenaria “Leaders of Growth - Innovating for the consumer” dell’Ecr Europer Forum and Marketplace 2007- Milano,9 maggio 2007.
Guido Barilla è Presidente del Gruppo Barilla.


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